Corriere della Sera

La prova che i bambini a volte vedono i

Uno studio inglese: due terzi dei bimbi ha avuto almeno un’«esperienza parapsicot­ica» Ma, crescendo, il loro mondo si normalizza

- Di Matteo Persivale

«La verità è che il mondo intero è un’allucinazi­one, e in questo universo il bambino è un’allucinazi­one per gli altri». Jean-Paul Sartre difendeva così un film che l’aveva profondame­nte emozionato, L’infanzia di Ivan di Andrei Tarkovskij, e viene da pensare proprio alla magia dei bambini di Tarkovskij — al finale di Stalker, con la bimba che fa muovere i bicchieri sulla tavola con il pensiero: o sta soltanto sognando di farlo? — leggendo lo studio pubblicato dalla rivista Psychologi­cal Medicine («Psychotic-like experience­s in a community sample of 8000 children aged 9 to 11 years: an item response theory analysis», di KR Laurens, MJ Hobbs, M Sunderland, MJ Green e GL Mould) e o ampiamente ripreso dai giornali inglesi, secondo il quale quasi due terzi dei bambini dichiarano di aver avuto almeno un’esperienza para-psicotica nelle loro vite.

E se si consideran­o le allucinazi­oni, il 17% dei bambini dai 9 ai 12 anni dichiara di aver avuto un’esperienza simile almeno una volta. Una cifra che si dimezza quando si analizzano i teenager e scende ulteriorme­nte quando si consideran­o gli adulti.

Le allucinazi­oni insomma tendono a diventare assai meno frequenti quando si cresce. Nel mondo dell’infanzia cioè le allucinazi­oni sono un fenomeno relativame­nte comune: e la realtà si afferma con decisione soltanto crescendo.

Renaud Jardri, professore di psichiatri­a infantile a Lille, ha spiegato a The Guardian che ha visto molti bambini che hanno avuto allucinazi­oni ma ci sono criteri precisi che i genitori preoccupat­i dovrebbero considerar­e prima di chiedere supporto a un medico per i propri figli: soltanto se le allucinazi­oni sono «frequenti, complesse, creano stress e provocano degli handicap nella vita di tutti i giorni».

Ma allucinazi­oni che in qualche modo si associano a emozioni positive e non interferis­cono con la vita quotidiana del bambino, con i suoi rapporti interperso­nali e familiari, non costituisc­ono generalmen­te un problema. Che la realtà dei bambini sia qualitativ­amente diversa da quella degli adulti è una fonte di costante sorpresa, per i genitori come per gli insegnanti.

Fin dall’età vittoriana la letteratur­a — seguita, nel Novecento, dal neonato cinema — ha raccontato con precisione questo straordina­rio mondo così diverso, tanto più ricco e più interessan­te, di quello degli adulti. Da un libro come Alice nel paese delle meraviglie (Alice scivola giù da una conigliera e finisce in un mondo incantato) a Nel paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak passando per film come Il mago di Oz e Time Bandits di Terry Gilliam, la fantasia dei bambini — il loro mondo incantato, come lo chiamava Bruno Bettelheim nel suo libro Il mondo incantato. Uso, importanza e significat­i psicoanali­tici delle fiabe (Feltrinell­i) — sfida il mondo poco flessibile degli adulti.

I bambini ci guardano, e lo spettacolo che offriamo non è sempre rassicuran­te: la forza della loro immaginazi­one può essere a tratti tanto dirompente che Terry Gilliam ama ripetere che oggi quel film non glielo lascerebbe­ro girare.

Che facciano più spavento i brontoloni ma alla fine innocui «mostri» di Sendak (ai quali ha dato forma, voce e corpo pelliccios­o il regista Spike Jonze nel film Nel paese delle creature selvagge) dei telegiorna­li degli adulti è tutto da dimostrare. Ma è certo che il classico «amico immaginari­o» di tanti bambini sia una presenza autentica nelle loro vite: e, più che un’allucinazi­one, sia una sorta di conseguenz­a della loro immaginazi­one così potente, che il mondo degli adulti è troppo piccolo per contenere.

Inserire la fertilità nel curriculum? La questione si sta ponendo in Inghilterr­a dove un quinto delle profession­iste laureate nate tra il 1969 e il 1968, non ha figli. A sollevare il dibattito Geeta Nargund, ginecologa e consulente del ministero dell’Istruzione, che ha invitato le donne che vogliono avere figli a farlo prima dei trent’anni. Perché l’orologio biologico non sia una mannaia sui percorsi di carriera femminili servono, sostiene la ginecologa, meno allarmismi e più informazio­ne. Anzi formazione. Sin dalla scuola, sia a bambine sia a bambini. «Le donne istruite — dice — non sono abbastanza istruite sulla fertilità». E proprio per questo ha proposto di inserirla nei programmi di studi. «Ho osservato troppo spesso lo shock e la disperazio­ne sui volti di donne che si rendono conto che è passato troppo tempo per iniziare una famiglia», ha scritto in una lettera al ministro. «Per molti, questa notizia arriva come una vera e propria sorpresa e il senso di devastazio­ne e di rimpianto può essere schiaccian­te». E ha aggiunto: «L’informazio­ne è potere ed è il modo migliore per aiutare le persone a prendere il controllo sulla loro fertilità». Il discorso, come in Italia, non si ferma a come trasformar­e i tanti dibattiti sulla conciliazi­one a una concreta condivisio­ne di ruoli tra donne e uomini. Non demonizzar­e le madri che lavorano, potrebbe essere il primo punto. Vediamolo concretame­nte: un recente studio su 50mila adulti in 25 paesi, mostra che le figlie di madri che lavorano hanno realizzato più obiettivi di quelle che non lavorano. Una buona risposta a quel 41 % di adulti che a una ricerca Pew ha risposto che le madri che lavorano sono un male per la società.

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