Il restyling non tolga quell’aria di famiglia
Tony Pagoda, il cantante neomelodico che nel romanzo di Paolo Sorrentino Hanno tutti ragione snocciola la spregiudicata saggezza della sua vita, arriva ad Ascoli Piceno subito dopo aver cantato a New York davanti a Frank Sinatra. Il «décalage» psichico lo abbatte. «L’Italia è un paesello monotono», sentenzia Tony. «E poi i musei civici che espongono chissà quali cretinate, mi rattristano fino a spingermi al suicidio». Una bordata cinica e senza appello. Eppure c’è stato un tempo, quello prima degli anni Ottanta di Tony Pagoda, in cui lo stato di abbandono dei musei civici era bello perché espressione di una povertà sobria e dignitosa. E di orgoglio cittadino. Giravi l’Italia e incontravi custodi che ti accoglievano come a casa loro; bussavi al portone di signore incaricate dal Comune che si asciugavano in fretta le mani sul grembiule per farti strada ai piani affrescati del vecchio palazzo; maestri di scuola che si alzavano dalla sedia del bar per venirti ad illustrare le collezioni con fiera competenza. I luoghi d’arte erano vuoti, ma percepiti come sacri e i pochi visitatori erano guardati con rispetto. Poi l’abbondanza dei soldi e l’ignoranza degli amministratori ha trasformato molti musei civici in cloni simili a filiali di banca, con un lusso falso e uniforme che ha appiattito il vecchio fascino locale. Piuttosto che in costosi lavori di restyling, il rinnovamento andava fatto nell’attitudine. Nell’epoca del turismo di massa un museo è bello quando è vivo e apre le porte a iniziative, concerti, letture, teatro, didattica. Quando, insomma, riesce a creare intorno a sé un gruppo di «amici del museo» e quando diventa riferimento, magari per l’aperitivo settimanale; quando dialoga con gli altri musei del territorio per «fare massa». Non servono appalti per risolvere i problemi d’identità, ma serve la passione dei direttori.