Corriere della Sera

Il restyling non tolga quell’aria di famiglia

- di Francesca Bonazzoli

Tony Pagoda, il cantante neomelodic­o che nel romanzo di Paolo Sorrentino Hanno tutti ragione snocciola la spregiudic­ata saggezza della sua vita, arriva ad Ascoli Piceno subito dopo aver cantato a New York davanti a Frank Sinatra. Il «décalage» psichico lo abbatte. «L’Italia è un paesello monotono», sentenzia Tony. «E poi i musei civici che espongono chissà quali cretinate, mi rattristan­o fino a spingermi al suicidio». Una bordata cinica e senza appello. Eppure c’è stato un tempo, quello prima degli anni Ottanta di Tony Pagoda, in cui lo stato di abbandono dei musei civici era bello perché espression­e di una povertà sobria e dignitosa. E di orgoglio cittadino. Giravi l’Italia e incontravi custodi che ti accoglieva­no come a casa loro; bussavi al portone di signore incaricate dal Comune che si asciugavan­o in fretta le mani sul grembiule per farti strada ai piani affrescati del vecchio palazzo; maestri di scuola che si alzavano dalla sedia del bar per venirti ad illustrare le collezioni con fiera competenza. I luoghi d’arte erano vuoti, ma percepiti come sacri e i pochi visitatori erano guardati con rispetto. Poi l’abbondanza dei soldi e l’ignoranza degli amministra­tori ha trasformat­o molti musei civici in cloni simili a filiali di banca, con un lusso falso e uniforme che ha appiattito il vecchio fascino locale. Piuttosto che in costosi lavori di restyling, il rinnovamen­to andava fatto nell’attitudine. Nell’epoca del turismo di massa un museo è bello quando è vivo e apre le porte a iniziative, concerti, letture, teatro, didattica. Quando, insomma, riesce a creare intorno a sé un gruppo di «amici del museo» e quando diventa riferiment­o, magari per l’aperitivo settimanal­e; quando dialoga con gli altri musei del territorio per «fare massa». Non servono appalti per risolvere i problemi d’identità, ma serve la passione dei direttori.

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