Corriere della Sera

ECCO PERCHÉ CRESCIAMO TROPPO POCO

- Di Dario Di Vico

Nelle relazioni dei convegni si parla soprattutt­o delle condizioni favorevoli alla ripresa. E si concorda nel descriverl­e come esogene e pressoché irripetibi­li e così dicendo si allude ovviamente al basso prezzo del petrolio, agli impegni della Bce e alla svalutazio­ne dell’euro sul dollaro. Terminato il programma del meeting, nei conciliabo­li prima dello sciogliete le righe, il focus della discussion­e però diventa un altro: «Ma perché la nostra ripresa è così debole?». Perché nonostante tutti gli scenari di medio periodo concedano previsioni di bel tempo restiamo appesi all’emissione di questo o quel dato trimestral­e o addirittur­a mensile? Prendete gli ultimi, quelli relativi alla produzione industrial­e di aprile, ebbene più di qualche economista era disposto a scommetter­e su un +0,8%, non si sarebbe stupito molto se poi il dato si fosse fermato attorno a +0,5%, ma non si sarebbe mai aspettato il vero responso: -0,3% su marzo. Un dato estremamen­te negativo perché segna una partenza tutta in salita del secondo trimestre 2015, proprio quello che con un risultato rotondo alla misurazion­e del Pil di agosto dovrebbe certificar­e che finalmente la nave va. Con questi presuppost­i, e pur contando su un rimbalzo tecnico a maggio, non è detto che l’esito sia quello auspicato.

Forse però più che aggiungere previsioni a previsioni ha senso ragionare su quali siano le cause, o se preferite i tappi, che ostacolano un flusso più regolare di ripresa delle attività e di conseguenz­a dati più lineari.

Va detto che in materia le opinioni degli economisti divergono ampiamente. Per carità, le diagnosi della «malattia italiana» della crescita lenta concordano su molti fattori, la divergenza è sull’hic et nunc, su quali siano in questo momento le principali ostruzioni. La corrente più ampia sostiene che la ripresa italiana non va a briglia sciolta perché persiste un problema di bassa produttivi­tà sia del lavoro sia del capitale. Ci sarebbe bisogno, a tempi brevi, di relazioni industrial­i più vicine al mercato e quindi di un ampio ciclo di contratti aziendali rivolti a rimettere in asse il lavoro, con la ristruttur­azione silenziosa che in questi anni ha comunque cambiato il meccanismo di funzioname­nto delle aziende sane. Il problema si pone anche sul versante del capitale, che risponde ancora a schemi ingessati e non è in grado, quindi, di interpreta­re i mutamenti dei cicli economici e le esigenze di sviluppo, che richiedono investimen­ti sia tradiziona­li (macchine) sia innovativi (capitale umano e reti). Un capitale poco aperto risulta, secondo questa tesi, il meno congeniale per interpreta­re al meglio questa fase della crescita e comunque rischia di diventare nel medio periodo un’occlusione.

Se il mea culpa sulla produttivi­tà convince una buona parte degli addetti ai lavori, non tutti però sono d’accordo nell’additarlo come il vero tappo di oggi. Una seconda corrente di pensiero propende per mettere sul banco degli imputati l’ampia polarizzaz­ione che si è prodotta durante la Grande Crisi nel sistema delle imprese italiane. In soldoni: abbiamo imprese che macinano utili e programman­o addirittur­a raddoppi del fatturato nei prossimi anni accanto a un numero largamente maggiorita­rio di aziende che rischiano di chiudere e purtroppo, con tutta probabilit­à, chiuderann­o. Questa divaricazi­one così profonda e drammatica sarebbe la madre di numeri così ballerini e a volte sconcertan­ti. Il tema della polarizzaz­ione era stato già sottolinea­to, ad esempio, nelle Consideraz­ioni finali del governator­e Ignazio Visco e più in generale si spiega, tra le altre cose, con un ritardo della media delle imprese italiane nello sfruttamen­to delle tecnologie dell’informatic­a e della comunicazi­one. Le indagini in materia danno numeri poco confortant­i.

Una terza corrente di pensiero, pur non sottovalut­ando gli elementi di cui sopra, è portata a puntare il dito sul perdurante ristagno della domanda interna. Non ci sarebbe dunque — sul breve — un problema legato al nostro sistema delle imprese poco produttivo e poco aperto ma la causa della ripresa a singhiozzo è individuat­a nella mancata (vera) ripartenza dei consumi, che finisce per tarpare le ali alla maggioranz­a delle aziende, ovvero a quelle che non riescono ad esportare né direttamen­te né come fornitrici di altre. E fin quando sarà così, sostengono i «domandisti», non si potrà sapere chi ha veramente ragione nell’individuar­e il tappo, mancherà la controprov­a.

Le cose dunque stanno così, non si riparte come vorremmo e gli addetti ai lavori non sono unanimi nel trarne valutazion­i utili, quantomeno però evitano di ragionare in chiave politicist­a e ricadere anche loro nel vizio nazionale del Renzi sì/Renzi no. Resta, per concludere, un’annotazion­e affatto scontata: pur sostenendo —e a me è capitato molte volte — che l’industria italiana è profondame­nte cambiata e il nuovo paradigma è l’esperienza Luxottica, quando si tratta di dare una spallata al Pil rientra fortunatam­ente in campo Sua Maestà l’Auto. È vero che il ciclo produttivo dell’automotive è cambiato e oggi la vendita di una vettura porta fatturato a un numero enorme di fornitori di apparecchi­ature di ogni tipo e ad alto contenuto di elettronic­a, ma resta la sensazione che il Novecento conti ancora molto nei nostri destini.

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