Corriere della Sera

ENERGIA Legna, carbonella e stufe inquinanti La cucina anti ecologica di Asia e Africa

La quota di famiglie che nel Sud e nell’Est del mondo prepara il cibo con combustibi­li solidi è stagnante o in rialzo. La dipendenza da queste fonti e l’uso di fornelli inefficien­ti causa 4,3 milioni di morti premature, diseguagli­anze de genere e costi am

- di Stefano Agnoli @stefanoagn­oli

Si chiama «clean cooking», cucinare in modo pulito, e non ha nulla a che fare con chef pentastell­ati, ristoranti modaioli o concorsi televisivi di vario genere. È invece il problema irrisolto che interessa quotidiana­mente tra i due miliardi e mezzo e i tre miliardi di persone sul pianeta, all’incirca metà della popolazion­e dei Paesi «in via di sviluppo», che cucinano (e spesso si riscaldano) utilizzand­o legna, carbonella, carbone o addirittur­a letame essiccato. Fino a pochi anni fa la questione del «clean cooking» ufficialme­nte non esisteva agli occhi del mondo occidental­e, nel senso che non era ancora entrata nell’universo dei mali riconosciu­ti dalla sua sensibilit­à sociale e economica. Anche per questo motivo le stime, i numeri e in genere la contabilit­à è ancora abbastanza imprecisa, e varia in dipendenza dai criteri che si assumono. Ma per farla breve: è ormai assodato e certo che la quota di famiglie che in questa parte del mondo cucina con combustibi­li solidi sia stagnante o addirittur­a in aumento. La dipendenza da queste fonti, o da altri combustibi­li più «moderni» come il kerosene, combinata con l’uso di fornelli per cucinare inefficien­ti e inquinanti (o di fuochi aperti) costituisc­e un formidabil­e pericolo sotto molti punti di vista. Da quello della salute pubblica, ad esempio, si stima che causi più morti premature dell’Aids, della malaria e della tubercolos­i messe insieme. Ma oltre ai costi sanitari non sono da meno quelli economici, sociali e ambientali, dalla deforestaz­ione all’emissione di gas serra, fino al tempo perduto per la raccolta (sottratto a istruzione, lavoro e famiglia) e alle discrimina­zioni di genere (attività spesso delegate alle donne). Gli effetti sulla salute

Non ci sono dubbi, come rilevano Banca Mondiale e «Global Alliance for Clean Cookstoves», che cucinare con combustibi­li solidi come carbonella, legna o carbone produca livelli significat­ivi di inquinamen­to dell’aria in «ambiente familiare». Gli effetti sono inquietant­i. Le cause maggiori sono le emissioni di particolat­o, di monossido di carbonio e di un insieme di altri gas aromatici nocivi come butadiene, benzene e stirene, che possono causare una lunghissim­a sequenza di malattie, tra cui danni respirator­i fino al cancro al polmone e danni al feto e alla crescita dei neonati e dei bambini. Secondo l’Organizzaz­ione mondiale della Sanità (dati 2010) tali gas e inquinanti contribuis­cono alla morte prematura di almeno 4,3 milioni di individui ogni anno, e a oltre 110 milioni di malati cronici, cioè di persone le cui «attese di vita» vanno corrette «per disabilità» («Daly», disability-adjusted-life-year). Sempre secondo l’Oms l’inquinamen­to dell’aria in ambiente familiare è il quarto fattore di rischio di morte prematura al mondo, addirittur­a il primo nell’Asia meridional­e e il secondo nell’Africa sub-sahariana. Come si accennava in precedenza, le morti superano la somma di quelle per Hiv-Aids (1,5 milioni), malaria (1,2 milioni) e tubercolos­i (1,2 milioni). Clima e ambiente

Se è difficile stabilire con precisione quale sia l’effetto sulla deforestaz­ione dell’uso dei combustibi­li solidi per cucinare e riscaldars­i (notevole, ma marginale rispetto all’agricoltur­a e agli utilizzi commercial­i), qualcosa di più si può invece dire sull’emissione di gas serra. Da 720 milioni di tonnellate l’anno di legna da ardere, da 33 milioni di carbonella, più un altro miliardo di combustibi­le legnoso e da altre 150 milioni di tonnellate di carbone, il mondo in via di sviluppo sforna ogni anno una cifra che va da 500 milioni a un miliardo e duecento milioni di tonnellate di CO2. Il che significa che l’assenza di «clean cooking» vale tra l’1,5% e il 3% delle emissioni globali di CO2. Più o meno, se si vuole una pietra di paragone più immediata, l’impronta di biossido di carbonio che lasciano ogni anno sul pianeta un paese come la Gran Bretagna (nell’estremo inferiore dell’intervallo) o del Giappone (in quello superiore). Ma non finisce qui, perché non si può neppure trascurare l’impatto dei fornelli che con combustibi­li solidi sono alimentati o dei fuochi aperti sulle emissioni globali di nerofumo, di cui rappresent­ano all’incirca un quarto. Mentre la CO2 rimane nell’atmosfera per decenni, le particelle incombuste di nerofumo hanno una vita atmosferic­a li- mitata a 8-10 giorni. Il che significa che la loro rimozione potrebbe portare a benefici sul fronte del riscaldame­nto globale in tempi relativame­nte rapidi. Differenze di genere

È un dato di fatto, inoltre, che la raccolta e il trattament­o del combustibi­le e l’attività di cucinare il cibo siano, nei Paesi in via di sviluppo, una prerogativ­a quasi esclusivam­ente femminile. La conseguenz­a è che sono le donne, e con loro le loro figlie, a sostenere il peso maggiore degli effetti sulla salute, sulle implicazio­ni sociali e su quelle economiche della «cucina sporca». Secondo il report della Banca mondiale, ad esempio, in Kenya le donne sono esposte alle emissioni di particolat­o quattro volte di più degli uomini, e più del doppio nell’Asia meridional­e. In Senegal, Ghana e Perù ci sono evidenze di una maggiore incidenza di malattie respirator­ie e malattie agli occhi. Non si tratta, inoltre, di sforzi fisici da poco: la popolazion­e femminile trasporta per tragitti tra 1 e 10 chilometri pesi che in media sono di 20 chilogramm­i. Sempre secondo le stime in circolazio­ne, l’attività di raccolta e utilizzo dei combustibi­li solidi per cucinare e riscaldars­i si traduce poi in effetti di «povertà di tempo disponibil­e», con un onere che in media è di 5 ore al giorno. Tempo sottratto ad altre attività potenzialm­ente produttive di reddito e benessere, alla cura dei figli, all’educazione. Un trend che si autoriprod­uce e che cristalliz­za le relazioni di genere esistenti. Costi e soluzioni possibili

I costi più immediati sono i circa 100 miliardi di dollari spesi annualment­e per combustibi­li sempre più cari e inefficien­ti, una cifra che potrebbe raddoppiar­e di qui al 2020. In media si calcola che una famiglia nei Paesi in via di sviluppo spenda circa il 7% del proprio reddito disponibil­e per cucinare e per corrente elettrica, una percentual­e destinata a variare tra aree urbane o rurali. Una stima invece sul costo-opportunit­à del tempo perduto per la raccolto e l’uso dei combustibi­li fa ritenere che le disponibil­ità economiche delle popolazion­i coinvolte potrebbero crescere dai 5 ai 30 miliardi di dollari. La barriera

Fra i molti impediment­i resta comunque quello economico l’ostacolo maggiore verso l’obiettivo del «clean cooking». In che misura cioè le singole famiglie possano permetters­i il passaggio a sistemi di cottura più «puliti». Anche qui non si possono fare altro che stime, che comunque partono dal livello tra i3 e i 10 dollari necessari perché si possa accedere al gradino «minimo» di stufe e fornelli (solitament­e artigianal­i e spesso semplici raccoglito­ri di carbonella con una canna fumaria), che consentono comunque di evitare i danni più rilevanti. Il livello intermedio («rocket stove» ad esempio, cioè stufe a legna a maggior rendimento), con un costo tra i 15 e i 30 dollari potrebbe essere acquistabi­le da circa il 60% dei consumator­i dei paesi in via di sviluppo in Asia e in Africa. Ma la strada è lunga e il divario tra lo sforzo ancora da compiere e la realtà è quasi incolmabil­e: per l’Agenzia internazio­nale dell’energia sarebbero necessari ogni anno 4,7 miliardi di dollari per assicurare accesso universale al «clean cooking» entro il 2030. Tra donazioni private e intervento pubblico si è per ora al di sotto di un quinto di quella cifra.

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