ENERGIA Legna, carbonella e stufe inquinanti La cucina anti ecologica di Asia e Africa
La quota di famiglie che nel Sud e nell’Est del mondo prepara il cibo con combustibili solidi è stagnante o in rialzo. La dipendenza da queste fonti e l’uso di fornelli inefficienti causa 4,3 milioni di morti premature, diseguaglianze de genere e costi am
Si chiama «clean cooking», cucinare in modo pulito, e non ha nulla a che fare con chef pentastellati, ristoranti modaioli o concorsi televisivi di vario genere. È invece il problema irrisolto che interessa quotidianamente tra i due miliardi e mezzo e i tre miliardi di persone sul pianeta, all’incirca metà della popolazione dei Paesi «in via di sviluppo», che cucinano (e spesso si riscaldano) utilizzando legna, carbonella, carbone o addirittura letame essiccato. Fino a pochi anni fa la questione del «clean cooking» ufficialmente non esisteva agli occhi del mondo occidentale, nel senso che non era ancora entrata nell’universo dei mali riconosciuti dalla sua sensibilità sociale e economica. Anche per questo motivo le stime, i numeri e in genere la contabilità è ancora abbastanza imprecisa, e varia in dipendenza dai criteri che si assumono. Ma per farla breve: è ormai assodato e certo che la quota di famiglie che in questa parte del mondo cucina con combustibili solidi sia stagnante o addirittura in aumento. La dipendenza da queste fonti, o da altri combustibili più «moderni» come il kerosene, combinata con l’uso di fornelli per cucinare inefficienti e inquinanti (o di fuochi aperti) costituisce un formidabile pericolo sotto molti punti di vista. Da quello della salute pubblica, ad esempio, si stima che causi più morti premature dell’Aids, della malaria e della tubercolosi messe insieme. Ma oltre ai costi sanitari non sono da meno quelli economici, sociali e ambientali, dalla deforestazione all’emissione di gas serra, fino al tempo perduto per la raccolta (sottratto a istruzione, lavoro e famiglia) e alle discriminazioni di genere (attività spesso delegate alle donne). Gli effetti sulla salute
Non ci sono dubbi, come rilevano Banca Mondiale e «Global Alliance for Clean Cookstoves», che cucinare con combustibili solidi come carbonella, legna o carbone produca livelli significativi di inquinamento dell’aria in «ambiente familiare». Gli effetti sono inquietanti. Le cause maggiori sono le emissioni di particolato, di monossido di carbonio e di un insieme di altri gas aromatici nocivi come butadiene, benzene e stirene, che possono causare una lunghissima sequenza di malattie, tra cui danni respiratori fino al cancro al polmone e danni al feto e alla crescita dei neonati e dei bambini. Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità (dati 2010) tali gas e inquinanti contribuiscono alla morte prematura di almeno 4,3 milioni di individui ogni anno, e a oltre 110 milioni di malati cronici, cioè di persone le cui «attese di vita» vanno corrette «per disabilità» («Daly», disability-adjusted-life-year). Sempre secondo l’Oms l’inquinamento dell’aria in ambiente familiare è il quarto fattore di rischio di morte prematura al mondo, addirittura il primo nell’Asia meridionale e il secondo nell’Africa sub-sahariana. Come si accennava in precedenza, le morti superano la somma di quelle per Hiv-Aids (1,5 milioni), malaria (1,2 milioni) e tubercolosi (1,2 milioni). Clima e ambiente
Se è difficile stabilire con precisione quale sia l’effetto sulla deforestazione dell’uso dei combustibili solidi per cucinare e riscaldarsi (notevole, ma marginale rispetto all’agricoltura e agli utilizzi commerciali), qualcosa di più si può invece dire sull’emissione di gas serra. Da 720 milioni di tonnellate l’anno di legna da ardere, da 33 milioni di carbonella, più un altro miliardo di combustibile legnoso e da altre 150 milioni di tonnellate di carbone, il mondo in via di sviluppo sforna ogni anno una cifra che va da 500 milioni a un miliardo e duecento milioni di tonnellate di CO2. Il che significa che l’assenza di «clean cooking» vale tra l’1,5% e il 3% delle emissioni globali di CO2. Più o meno, se si vuole una pietra di paragone più immediata, l’impronta di biossido di carbonio che lasciano ogni anno sul pianeta un paese come la Gran Bretagna (nell’estremo inferiore dell’intervallo) o del Giappone (in quello superiore). Ma non finisce qui, perché non si può neppure trascurare l’impatto dei fornelli che con combustibili solidi sono alimentati o dei fuochi aperti sulle emissioni globali di nerofumo, di cui rappresentano all’incirca un quarto. Mentre la CO2 rimane nell’atmosfera per decenni, le particelle incombuste di nerofumo hanno una vita atmosferica li- mitata a 8-10 giorni. Il che significa che la loro rimozione potrebbe portare a benefici sul fronte del riscaldamento globale in tempi relativamente rapidi. Differenze di genere
È un dato di fatto, inoltre, che la raccolta e il trattamento del combustibile e l’attività di cucinare il cibo siano, nei Paesi in via di sviluppo, una prerogativa quasi esclusivamente femminile. La conseguenza è che sono le donne, e con loro le loro figlie, a sostenere il peso maggiore degli effetti sulla salute, sulle implicazioni sociali e su quelle economiche della «cucina sporca». Secondo il report della Banca mondiale, ad esempio, in Kenya le donne sono esposte alle emissioni di particolato quattro volte di più degli uomini, e più del doppio nell’Asia meridionale. In Senegal, Ghana e Perù ci sono evidenze di una maggiore incidenza di malattie respiratorie e malattie agli occhi. Non si tratta, inoltre, di sforzi fisici da poco: la popolazione femminile trasporta per tragitti tra 1 e 10 chilometri pesi che in media sono di 20 chilogrammi. Sempre secondo le stime in circolazione, l’attività di raccolta e utilizzo dei combustibili solidi per cucinare e riscaldarsi si traduce poi in effetti di «povertà di tempo disponibile», con un onere che in media è di 5 ore al giorno. Tempo sottratto ad altre attività potenzialmente produttive di reddito e benessere, alla cura dei figli, all’educazione. Un trend che si autoriproduce e che cristallizza le relazioni di genere esistenti. Costi e soluzioni possibili
I costi più immediati sono i circa 100 miliardi di dollari spesi annualmente per combustibili sempre più cari e inefficienti, una cifra che potrebbe raddoppiare di qui al 2020. In media si calcola che una famiglia nei Paesi in via di sviluppo spenda circa il 7% del proprio reddito disponibile per cucinare e per corrente elettrica, una percentuale destinata a variare tra aree urbane o rurali. Una stima invece sul costo-opportunità del tempo perduto per la raccolto e l’uso dei combustibili fa ritenere che le disponibilità economiche delle popolazioni coinvolte potrebbero crescere dai 5 ai 30 miliardi di dollari. La barriera
Fra i molti impedimenti resta comunque quello economico l’ostacolo maggiore verso l’obiettivo del «clean cooking». In che misura cioè le singole famiglie possano permettersi il passaggio a sistemi di cottura più «puliti». Anche qui non si possono fare altro che stime, che comunque partono dal livello tra i3 e i 10 dollari necessari perché si possa accedere al gradino «minimo» di stufe e fornelli (solitamente artigianali e spesso semplici raccoglitori di carbonella con una canna fumaria), che consentono comunque di evitare i danni più rilevanti. Il livello intermedio («rocket stove» ad esempio, cioè stufe a legna a maggior rendimento), con un costo tra i 15 e i 30 dollari potrebbe essere acquistabile da circa il 60% dei consumatori dei paesi in via di sviluppo in Asia e in Africa. Ma la strada è lunga e il divario tra lo sforzo ancora da compiere e la realtà è quasi incolmabile: per l’Agenzia internazionale dell’energia sarebbero necessari ogni anno 4,7 miliardi di dollari per assicurare accesso universale al «clean cooking» entro il 2030. Tra donazioni private e intervento pubblico si è per ora al di sotto di un quinto di quella cifra.