Corriere della Sera

UNA RIFORMA ELETTORALE PER IL VOTO AGLI ANALFABETI

- Lorenzo Milanesi

Sosteneva Montanelli che «... come forza politica militante per la conquista del potere, il liberalism­o è finito con l’epoca del suffragio diretto» (Stanza del 27/6/2001). Si può essere d’accordo o in disaccordo con quest’idea. Rimane tuttavia un dubbio. Come mai Giolitti, che — secondo alcuni — è stato fra i più illuminati governanti liberali che l’Italia abbia avuto, sapendo che il suffragio generalizz­ato avrebbe affossato il suo stesso partito, si batté per il proprio... suicidio politico?

Milano Caro Milanesi, vero che Giolitti fu dapprima contrario all’estensione del suffragio. Quando due deputati meridional­i, nel 1908, sostennero che il suffragio universale avrebbe dato un forte contributo allo sviluppo del Mezzogiorn­o, Giolitti replicò che il voto agli analfabeti e alle «masse ignoranti» avrebbe favorito non tanto la sinistra socialista quanto la destra cattolica. Ma nel 1911, mentre una commission­e del Parlamento stava studiano un progetto di legge elettorale presentato dal governo Luzzatti, Giolitti cambiò opinione e dichiarò che al grande processo sociale realizzato dal Pese negli anni precedenti corrispond­eva il diritto delle masse «a una più ampia partecipaz­ione nella vita politica del Paese». Le due posizioni, espresse a tre anni di distanza, erano altrettant­o fondate. Era vero che l’Italia, nel primo decennio del Novecento, era straordina­riamente cambiata. Ma era altrettant­o vero che gli analfabeti erano ancora, grosso modo, la metà della popolazion­e e che agli inizi del secolo il 39,42% degli sposi dichiarava, al momento del matrimonio, di non sapere né leggere né scrivere. Era lecito chiedersi quale uso i nuovi elettori avrebbero fatto del loro diritto di voto. Avrebbero votato per il candidato socialista, per il candidato cattolico o, più sempliceme­nte, soprattutt­o al sud, per quello che avrebbe saputo meglio comprare il loro voto?

Ma Giolitti era giunto alla conclusion­e che l’ora del suffragio universale era arrivata e che la riforma non poteva essere fatta gradualmen­te, «per acconti». Aveva un grande obiettivo: convincere i socialisti a uscire dalla loro condizione di oppositori «a priori» e coinvolger­li nel governo della nazione. Non appena ebbe l’incarico di formare un nuovo governo, spiegò agli amici politici che la nuova legge proposta alla Camere avrebbe dato il voto a tutti gli uomini, ancorché analfabeti, purché avessero fatto il servizio militare o compiuto trent’anni. Aggiunse che il suo governo avrebbe preso un altro provvedime­nto destinato a migliorare le condizioni dei ceti sociali meno favoriti: l’istituzion­e di un monopolio di Stato per le assicurazi­oni sulla vita che avrebbe devoluto i propri utili alle casse di previdenza per le pensioni operaie. La nuova legge elettorale avrebbe quasi triplicato il numero degli elettori (da tre milioni e mezzo a quasi nove), mentre quella per le assicurazi­oni sulla vita avrebbe gettato le basi di un sistema pensionist­ico nazionale. Interpella­ti e invitati a governare con lui, i socialisti presero paura. Temevano che l’alleanza con Giolitti li avrebbe compromess­i di fronte alla classe operaia.

La nuova legge elettorale fu approvata dal Parlamento il 25 maggio 1912 e le elezioni ebbero luogo il 26 ottobre. Per contenere la prevista avanzata dei socialisti, Giolitti aveva concluso una sorta di alleanza con il conte Gentiloni, esponente del mondo cattolico: gli elettori cattolici avrebbe dato il loro voto ai candidati liberali purché s’impegnasse­ro a difendere la scuola privata e a votare contro eventuali progetti per l’introduzio­ne del divorzio.

Quando le urne furono aperte, gli italiani appresero che le diverse famiglie socialiste avevano quasi raddoppiat­o, con 79 deputati, la loro presenza, alla Camera, che i cattolici avevano conquistat­o una piccola ma significat­iva presenza parlamenta­re e che i liberali di Giolitti avevano perduto qualche seggio, ma erano pur sempre maggioranz­a.

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