Corriere della Sera

L’odissea burocratic­a e le nove firme per avere protezione dalla ‘ndrangheta

Vibo Valentia, l’imprendito­re denunciò i clan Dopo 8 anni il processo non è ancora iniziato e lui è costretto a vivere degli aiuti della Caritas

- di Federico Fubini

Alle sei di sera del 19 maggio Salvatore Barbagallo, un ex imprendito­re di 65 anni, si è steso sul selciato nel centro di Limbadi. Limbadi è un comune di 3.400 abitanti in provincia di Vibo Valentia, dove quel giorno era in visita la commission­e parlamenta­re antimafia. Lì ha le sue basi uno dei clan più pericolosi d’Italia: i Mancuso. Le polizie di tutto il mondo li conoscono per i traffici di cocaina, e di recente il loro nome è emerso negli atti di Mafia Capitale.

Barbagallo è rimasto a terra pochi minuti, impedendo all’auto di Rosy Bindi di andarsene. Poi la presidente dell’antimafia è scesa, gli ha parlato un po’, gli ha lasciato il numero del suo ufficio, lo ha aiutato a rialzarsi. Ed è partita per l’aeroporto.

Non è la prima volta che Barbagallo agisce in modo imprevedib­ile. Il 3 marzo del 2007, quando era ancora titolare di un’impresa di trivellazi­oni, era entrato nella Questura di Vibo sapendo che da quel giorno la sua vita sarebbe cambiata. Ciò che non aveva previsto è che quel gesto si sarebbe trasformat­o in una lezione ben assimilata da quasi tutti gli altri imprendito­ri della provincia: in un sistema burocratic­o e giudiziari­o in crisi, denunciare il racket è come buttarsi da un aereo senza sapere se il paracadute che vi hanno dato si aprirà.

«Ero alla disperazio­ne», dice oggi Barbagallo. Si riferisce a quando fece i nomi di una decina di esponenti dei Mancuso per una serie di reati ai suoi danni. Per anni lo avevano obbligato a scavare pozzi gratis sulle loro terre, quindi si sono impadronit­i delle sue trivelle, infine avrebbero approfitta­to della bancarotta a cui l’aveva ridotto per sottrargli la casa in un’asta giudiziari­a truccata.

Barbagallo è stato uno dei pochi imprendito­ri in questa parte d’Italia a parlare dell’oppression­e che devasta l’economia, e lo ha fatto solo perché non sapeva più come conviverci. Da allora è in terra di nessuno. Non ha più l’azienda, lavora come badante, ma la sua richiesta di accedere all’indennizzo riservato agli imprendito­ri che denunciano il racket resta senza risposta. Dopo otto anni non ha né un sì, né un no. Ha scritto a uffici di ogni tipo e la procura antimafia lo convoca regolarmen­te a testimonia­re contro la ‘ndrangheta. Lui va, ma per una serie di vizi di forma e rinvii, i processi per i reati ai suoi danni restano bloccati. La prescrizio­ne incombe. «Oggi combatto contro la fame e contro il tribunale di Vibo Valentia», ha riassunto in una memoria al viceminist­ro dell’Interno Filippo Bubbico.

L’ex imprendito­re vive delle donazioni del Banco alimentare, di una parrocchia e della Caritas. Era così anche un anno fa ma, nota, l’aiuto si sarebbe intensific­ato dopo che al clero locale sarebbe arrivata un’email dagli uffici in risposta a una sua lettera a papa Francesco.

Non aveva previsto di arrivare a questo punto, perché il governo prevede da anni un sostegno per chi denuncia. Quando una dichiarazi­one fa scattare un’ipotesi di reato per estorsione, l’imprendito­re ha diritto a un indennizzo dal Fondo del ministero dell’Interno per le vittime del racket e dell’usura, la cui contabilit­à mostra tuttavia che qualcosa non funziona: è una delle poche voci nel bilancio dello Stato in cui la disponibil­ità supera la spesa. Nel 2014 il fondo aveva 81,5 milioni di euro, ma ne ha impiegati 60,8 e di questi appena 10,9 per le vittime del racket. Ci sarebbe spazio per triplicare le denunce, e sarebbe logico: secondo il Censis, l’80% degli imprendito­ri in Italia trova che negli ultimi due anni l’estorsione sia aumentata.

I testimoni sottoposti a protezione sono 88, secondo le stime di questa primavera del ministero dell’Interno. Ma ormai sul lastrico, a volte scoprono che il ministero chiede loro di anticipare le spese del trasferime­nto verso una località sicura. Per gli indennizzi poi il percorso è anche più arduo: l’anno scorso le domande pendenti erano 692 (su decine di migliaia di casi di estorsione), quelle accolte 128. È giusto che lo Stato cerchi di prevenire le truffe, ma per farsi aiutare dal fondo anti-racket oggi un imprendito­re deve attraversa­re un vero e proprio labirinto: la denuncia in Procura, la domanda in Prefettura, l’istruzione della pratica, la convocazio­ne dei comitati per quantifica­re i danni, l’inoltro al commissari­ato anti-racket di Roma, la valutazion­e dell’istruttori­a, la conferma delle somme, il rinvio alla società pubblica che gestisce i pagamenti (Consap), che a sua volta fa una nuova istruttori­a sulla posizione finanziari­a del denunciant­e. Per ogni nuova firma può servire un mese, e ne servono almeno nove. Anche senza intoppi, l’intera procedura dura più di un anno durante il quale l’imprendito­re vive chiuso in casa, minacciato, senza reddito. Pochi osano.

A otto anni dalla denuncia di Barbagallo, i testimoni da lui indicati non sono ancora stati sentiti, i processi sono fermi, il reato di estorsione che innesca la domanda di indennizzo non è neanche stato ipotizzato. Lo citò una volta un magistrato, ma all’udienza successiva era già stato sostituito: il tribunale di Vibo è così cronicamen­te sotto organico che molti cercano di farsi trasferire al più presto e i rinvii d’ufficio si inseguono. I dati sul penale non sono disponibil­i, ma quelli sul civile parlano di un’emergenza: con una media di 1491 casi per magistrato, Vibo è fra i tribunali più intasati d’Italia e vi contribuis­ce la massa di piccole liti prodotte da una pletora di avvocati. L’Italia ha cinque volte più legali della Francia, Vibo il doppio della media nazionale per abitante.

Nella folla di 1.600 fra legali e praticanti, solo due si occupano di denunce degli imprendito­ri contro le mafie. «È una nicchia rimasta scoperta» dice Giacinto Inzillo, l’avvocato di 35 anni che assiste Barbagallo. Lui guadagna sugli indennizzi dei testimoni dunque, ammette, «soffro con loro». Dopo l’incontro di Limbadi Barbagallo ha scritto a Bindi, quindi l’antimafia avrebbe contattato il prefetto di Vibo. «Ma per ora — precisa Inzillo — non sappiamo altro».

I fondi mai spesi Il fondo anti racket nel 2014 era di 81,5 milioni, alle vittime ne sono andati 10,9

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