Lo stile inconfondibile di «True Detective» per Colin Farrell
In contemporanea con gli Stati Uniti, è arrivata la seconda stagione di «True Detective», prodotta da Hbo e scritta ancora da Nic Pizzolatto, con cast e ambientazione totalmente nuovi, a cominciare dalla sigla di Leonard Cohen, «Nevermind». Tra i protagonisti Colin Farrell e Vince Vaughn, nelle insolite vesti del truffatore incallito (Sky Atlantic, lunedì, ore 22.10 v.o., mercoledì 29 versione doppiata).
Il primo episodio, The Western Book of the Dead (Il libro tibetano dei morti) funziona come una sorta di prologo. Non siamo più in Louisiana, assolata, barbarica e misteriosa, ma in una trafficata periferia industriale della California del Sud, City of Vinci.
Il detective Ray Velcoro (Colin Farrell) è anche al soldo di Frank Semyon (Vince Vaughn), che qualche anno prima lo ha aiutato a catturare l’uomo che stuprò sua moglie. Ray ha anche un figlio piccolo, Chad, vittima di bullismo. Rachel McAdams è la poliziotta Antigone «Ani» Bezzerides, introversa e sopraffatta da malesseri famigliari. Taylor Kitsch è l’ex marine Paul Woodrugh, un ufficiale in motocicletta con un misterioso trauma alle spalle (finora il personaggio meno riuscito, nomen omen). Meglio smetterla qui con la descrizione.
Ormai la narrazione di Pizzolatto ha uno stile inconfondibile: sorretta da una fotografia impeccabile, la trama si muove con andamento lento, come se si trascinasse dietro un carico di tragicità, come se i momenti di raffinatezza celassero un principio di morte. I suoi personaggi vivono prigionieri dei loro tormenti (la divisa è l’altro abito del male), con ferite difficili da rimarginare, con passati che tornano di continuo. Sono uomini e donne la cui pietà è senza candore.
Naturalmente è già partito il confronto con la prima stagione e c’è già chi storce il naso: il prologo ci invita piuttosto ad abbandonarsi al testo, a lasciar perdere, per ora, i raffronti, a capire come sia difficile emanciparsi dal proprio destino.