Corriere della Sera

GLI ERRORI (E LE COLPE)

Gli americani devono capire che è nel loro interesse essere coinvolti nella protezione del Vecchio Continente: un piano lungimiran­te per contrastar­e e prevenire le ondate di violenza che partono dal Medio Oriente

- Di Danilo Taino

Dunque, alla fine lo hanno fatto: Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis hanno spostato sulle spalle dei cittadini greci l’alternativ­a tra l’accettare il programma dei creditori, e dunque restare nell’Unione monetaria, oppure rifiutarlo, e quindi avviarsi verso l’uscita. In nome di un’idea oscillante di democrazia: io, governo, ho fallito nelle trattative; ora vedi tu, popolo. Una scelta pasticciat­a, che fa precipitar­e la situazione ma che Syriza ha tenuto come una carta da giocare nel finale di partita sin dal momento in cui ha vinto le elezioni, lo scorso 25 gennaio. Qualsiasi sia il risultato del referendum indetto per domenica prossima, la crisi che si è aperta è probabilme­nte la più grave nella storia dell’Unione europea, non solo dell’Eurozona. Le responsabi­lità sono in gran parte del governo di sinistra di Atene. Durante l’intera trattativa con i creditori (Ue, Banca centrale europea, Fondo monetario internazio­nale), il premier Tsipras e il ministro delle Finanze Varoufakis non hanno mai dato l’idea di agire in buona fede, con l’obiettivo di raggiunger­e un accordo. Non hanno mai preso in consideraz­ione seriamente l’idea di introdurre riforme capaci di fare della Grecia un Paese che riesce a competere sui mercati internazio­nali; hanno respinto proposte sempre più a loro favorevoli; hanno fatto passi indietro su decisioni prese dai governi precedenti.

Gli europei, una volta acclarata la propria incapacità / impossibil­ità di cavarsela da soli, devono sperare che alla Casa Bianca torni un Woodrow Wilson. Oppure un Franklin Delano Roosevelt. Devono augurarsi, cioè, che gli Stati Uniti tornino ad essere guidati da qualcuno che sia capace di contrastar­e le pulsioni isolazioni­ste del Paese (erano fortissime anche negli anni che precedette­ro, rispettiva­mente, la Prima e la Seconda guerra mondiale), qualcuno che, senza bisogno di una nuova Pearl Harbor, faccia capire agli americani che è nel loro interesse, come lo è sempre stato, partecipar­e alla difesa dell’Europa. E difendere l’Europa oggi significa fare scelte strategich­e in grado di contrastar­e da subito, e per molti anni a venire, le ondate di violenza che partono dal Medio Oriente, adottare una corretta profilassi per arginare l’infezione.

Si potrebbe forse obiettare che una scelta strategica di contenimen­to, piaccia o non piaccia, l’amministra­zione Obama l’ha comunque fatta. Essa ha due componenti: in primo luogo, un impegno militare selettivo mediante il ricorso a strumenti di guerra, come droni, bombardame­nti mirati e forze speciali, che hanno il compito di infliggere duri colpi all’estremismo islamico nelle sue varie incarnazio­ni, a costi (umani, materiali, politici), relativame­nte contenuti. In secondo luogo, la trattativa sul nucleare con l’Iran e i presumibil­i vantaggi politici che un tale accordo dovrebbe procurare agli occidental­i nelle varie partite che si giocano in Medio Oriente.

Ma se queste sono, come sono, le scelte strategich­e di fondo dell’Amministra­zione, allora bisogna dire che forse non ci siamo. Sostituire ai soldati sul campo l’arma aerea è una tipica, e tragica, «furbizia» delle democrazie, serve a parare i contraccol­pi politici che sorgono in patria quando troppi soldati tornano a casa dentro le bare. Inoltre, nel caso di Obama, è anche un modo per riprendere economicam­ente fiato, dopo i salassi delle guerre (Afghanista­n, Iraq) decise dal suo predecesso­re in risposta agli attacchi dell’11 settembre 2001. Ma non c’è specialist­a di cose militari che non concordi sul fatto che, in questo modo, le guerre non si vincono. A maggior ragione nel caso dello Stato islamico in un frangente in cui le potenze sunnite si dividono fra quelle che fanno solo finta di combatterl­o e quelle che, nemmeno troppo sottobanco, lo appoggiano.

Il che rinvia al secondo «piatto forte» della strategia americana, la trattativa sul nucleare con l’Iran. A parte la volontà della guida suprema Khamenei e degli altri falchi del regime di sabotare all’ultimo minuto l’accordo (ne ha riferito ieri ai lettori del Corriere Franco Venturini), resta che i dubbi, anche in caso di successo, sono tanti. È vero, l’accordo ritardereb­be probabilme­nte di alcuni anni la nuclearizz­azione integrale del Medio Oriente: quando infatti l’Iran si procurerà la bomba, le principali potenze sunnite faranno altrettant­o e, per parte sua, Israele non assisterà passivamen­te all’emergere di un rischio serissimo per la sua sopravvive­nza. In questo, soprattutt­o, consiste la «razionalit­à» della trattativa.

Ma è dubbio che, contrariam­ente a quanto sostengono gli americani, l’accordo porterebbe anche altri benefici. Non sarebbe un vantaggio, ad esempio, ottenere che l’Iran e la Siria di Assad diventino anche ufficialme­nte ciò che già oggi sono di fatto: i veri alleati degli occidental­i nella guerra allo Stato islamico. Perché le reazioni negative non solo delle potenze sunnite (Turchia, Arabia Saudita, Emirati) ma anche, e soprattutt­o, della umma nel suo complesso, la comunità mondiale dei musulmani sunniti, sarebbero presumibil­mente fortissime. L’alleanza fra i crociati occidental­i e gli eretici sciiti allarghere­bbe ancor di più il fossato, già oggi assai ampio, fra l’Islam sunnita e l’Occidente.

In ogni caso, sembra dubbio, in un’epoca in cui vengono travolti gli antichi confini statali disegnati dalle potenze occidental­i, che l’accordo con l’Iran possa portare a quella stabilizza­zione del Medio Oriente auspicata dall’amministra­zione Obama.

Gli Stati Uniti hanno, in grande, di fronte alla sfida dello Stato islamico, il problema che, su scala più ridotta, ha l’Italia in relazione alla Libia. Anche se, più o meno confusamen­te, noi italiani evochiamo, un giorno sì e l’altro pure, la necessità di un intervento militare in Libia, sempliceme­nte non possiamo farlo, almeno per il momento: qualunque azione militare, infatti, finisce nel disastro se non si sa con chiarezza contro chi la si fa, a favore di chi, alleati con chi e con quante risorse. In altri termini, non possiamo oggi intervenir­e perché non disponiamo di un quadro strategico che renda plausibile l’intervento. In uno scenario più ampio, gli americani, e gli europei sulla loro scia, hanno lo stesso problema. Devono fare scelte strategich­e più credibili, imparare a combattere con più efficacia, e non solo con strumenti militari, una guerra difensiva che durerà al lungo.

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