GLI ERRORI (E LE COLPE)
Gli americani devono capire che è nel loro interesse essere coinvolti nella protezione del Vecchio Continente: un piano lungimirante per contrastare e prevenire le ondate di violenza che partono dal Medio Oriente
Dunque, alla fine lo hanno fatto: Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis hanno spostato sulle spalle dei cittadini greci l’alternativa tra l’accettare il programma dei creditori, e dunque restare nell’Unione monetaria, oppure rifiutarlo, e quindi avviarsi verso l’uscita. In nome di un’idea oscillante di democrazia: io, governo, ho fallito nelle trattative; ora vedi tu, popolo. Una scelta pasticciata, che fa precipitare la situazione ma che Syriza ha tenuto come una carta da giocare nel finale di partita sin dal momento in cui ha vinto le elezioni, lo scorso 25 gennaio. Qualsiasi sia il risultato del referendum indetto per domenica prossima, la crisi che si è aperta è probabilmente la più grave nella storia dell’Unione europea, non solo dell’Eurozona. Le responsabilità sono in gran parte del governo di sinistra di Atene. Durante l’intera trattativa con i creditori (Ue, Banca centrale europea, Fondo monetario internazionale), il premier Tsipras e il ministro delle Finanze Varoufakis non hanno mai dato l’idea di agire in buona fede, con l’obiettivo di raggiungere un accordo. Non hanno mai preso in considerazione seriamente l’idea di introdurre riforme capaci di fare della Grecia un Paese che riesce a competere sui mercati internazionali; hanno respinto proposte sempre più a loro favorevoli; hanno fatto passi indietro su decisioni prese dai governi precedenti.
Gli europei, una volta acclarata la propria incapacità / impossibilità di cavarsela da soli, devono sperare che alla Casa Bianca torni un Woodrow Wilson. Oppure un Franklin Delano Roosevelt. Devono augurarsi, cioè, che gli Stati Uniti tornino ad essere guidati da qualcuno che sia capace di contrastare le pulsioni isolazioniste del Paese (erano fortissime anche negli anni che precedettero, rispettivamente, la Prima e la Seconda guerra mondiale), qualcuno che, senza bisogno di una nuova Pearl Harbor, faccia capire agli americani che è nel loro interesse, come lo è sempre stato, partecipare alla difesa dell’Europa. E difendere l’Europa oggi significa fare scelte strategiche in grado di contrastare da subito, e per molti anni a venire, le ondate di violenza che partono dal Medio Oriente, adottare una corretta profilassi per arginare l’infezione.
Si potrebbe forse obiettare che una scelta strategica di contenimento, piaccia o non piaccia, l’amministrazione Obama l’ha comunque fatta. Essa ha due componenti: in primo luogo, un impegno militare selettivo mediante il ricorso a strumenti di guerra, come droni, bombardamenti mirati e forze speciali, che hanno il compito di infliggere duri colpi all’estremismo islamico nelle sue varie incarnazioni, a costi (umani, materiali, politici), relativamente contenuti. In secondo luogo, la trattativa sul nucleare con l’Iran e i presumibili vantaggi politici che un tale accordo dovrebbe procurare agli occidentali nelle varie partite che si giocano in Medio Oriente.
Ma se queste sono, come sono, le scelte strategiche di fondo dell’Amministrazione, allora bisogna dire che forse non ci siamo. Sostituire ai soldati sul campo l’arma aerea è una tipica, e tragica, «furbizia» delle democrazie, serve a parare i contraccolpi politici che sorgono in patria quando troppi soldati tornano a casa dentro le bare. Inoltre, nel caso di Obama, è anche un modo per riprendere economicamente fiato, dopo i salassi delle guerre (Afghanistan, Iraq) decise dal suo predecessore in risposta agli attacchi dell’11 settembre 2001. Ma non c’è specialista di cose militari che non concordi sul fatto che, in questo modo, le guerre non si vincono. A maggior ragione nel caso dello Stato islamico in un frangente in cui le potenze sunnite si dividono fra quelle che fanno solo finta di combatterlo e quelle che, nemmeno troppo sottobanco, lo appoggiano.
Il che rinvia al secondo «piatto forte» della strategia americana, la trattativa sul nucleare con l’Iran. A parte la volontà della guida suprema Khamenei e degli altri falchi del regime di sabotare all’ultimo minuto l’accordo (ne ha riferito ieri ai lettori del Corriere Franco Venturini), resta che i dubbi, anche in caso di successo, sono tanti. È vero, l’accordo ritarderebbe probabilmente di alcuni anni la nuclearizzazione integrale del Medio Oriente: quando infatti l’Iran si procurerà la bomba, le principali potenze sunnite faranno altrettanto e, per parte sua, Israele non assisterà passivamente all’emergere di un rischio serissimo per la sua sopravvivenza. In questo, soprattutto, consiste la «razionalità» della trattativa.
Ma è dubbio che, contrariamente a quanto sostengono gli americani, l’accordo porterebbe anche altri benefici. Non sarebbe un vantaggio, ad esempio, ottenere che l’Iran e la Siria di Assad diventino anche ufficialmente ciò che già oggi sono di fatto: i veri alleati degli occidentali nella guerra allo Stato islamico. Perché le reazioni negative non solo delle potenze sunnite (Turchia, Arabia Saudita, Emirati) ma anche, e soprattutto, della umma nel suo complesso, la comunità mondiale dei musulmani sunniti, sarebbero presumibilmente fortissime. L’alleanza fra i crociati occidentali e gli eretici sciiti allargherebbe ancor di più il fossato, già oggi assai ampio, fra l’Islam sunnita e l’Occidente.
In ogni caso, sembra dubbio, in un’epoca in cui vengono travolti gli antichi confini statali disegnati dalle potenze occidentali, che l’accordo con l’Iran possa portare a quella stabilizzazione del Medio Oriente auspicata dall’amministrazione Obama.
Gli Stati Uniti hanno, in grande, di fronte alla sfida dello Stato islamico, il problema che, su scala più ridotta, ha l’Italia in relazione alla Libia. Anche se, più o meno confusamente, noi italiani evochiamo, un giorno sì e l’altro pure, la necessità di un intervento militare in Libia, semplicemente non possiamo farlo, almeno per il momento: qualunque azione militare, infatti, finisce nel disastro se non si sa con chiarezza contro chi la si fa, a favore di chi, alleati con chi e con quante risorse. In altri termini, non possiamo oggi intervenire perché non disponiamo di un quadro strategico che renda plausibile l’intervento. In uno scenario più ampio, gli americani, e gli europei sulla loro scia, hanno lo stesso problema. Devono fare scelte strategiche più credibili, imparare a combattere con più efficacia, e non solo con strumenti militari, una guerra difensiva che durerà al lungo.