Gli studi da ingegnere, la moschea «Ragazzo educato e alla mano»
KAIROUAN (TUNISIA) Morto lui, scappati di notte i tre compagni d’affitto e svuotata la casa anche d’ogni oggetto: prima della fuga, s’ignora se per semplice prudenza oppure per reali paure, hanno raccattato scarpe e libri, computer e dopobarba, cd musicali e fotografie. Alla polizia, arrivata in forze all’alba, non è rimasto che rintracciare il proprietario dell’appartamento, apparso sorpreso, caricarlo sul pick-up e portarlo via per avere chiarimenti e informazioni.
Dell’uomo, trattenuto a oltranza, a metà pomeriggio ancora non c’era notizia nella zona salafita della medina di Kairouan, la città santa dove s’ambienta la geografia di Seiffedine Rezgui, il killer in costume, il ragazzo che sui social network inneggiava alla jihad, lo studente omaggiato dall’Isis, che (in ritardo di alcune ore) ha rivendicato la strage a Sousse e ha battezzato il 23enne con un nome di battaglia, per accompagnarlo nel viaggio in «paradiso». Sua ricompensa per l’agguato, insieme sembra ai soldi donati alla famiglia, originaria della Tunisia settentrionale da dove rimbalzano voci ovviamente difensive, perché Seiffedine era «un timido introverso, soffriva la vita».
Da Sousse a Kairouan ci sono tre quarti d’ora di macchina. Strade statali piene di dossi e di capre che attraversano e si fermano a metà, ai bordi dell’asfalto fichi d’india e rifiuti spinti dal forte vento. Strisce di deserto, temperatura che sale. Alla destinazione i gradi sono 38 ma non è per questo che la città è ferma. Una capitale religiosa del Nordafrica, sede di un’antichissima moschea perenne polo d’attrazione per visitatori stranieri che si presentano agli ingressi in pantaloncini e sandali, Kairouan è la base dei salafiti, l’Islam più duro, più intransigente. In giorni di Ramadan, se nella turistica Sousse sono ben visibili eccezioni alla regola – mangiare nelle ore di digiuno e peraltro all’aperto, fumare e per di più in pubblico -, qui invece nemmeno si lavora. La medina è ferma, i pochi commercianti presenti riposano ai piedi delle piccole botteghe con le ante dipinte d’azzurro, che riprendono il colore delle finestre e delle
Città santa Kairouan, 180 chilometri a sud della capitale Tunisi, è un centro famoso per gli studi islamici e per la presenza di salafiti
porte d’ingresso nel resto della città. I negozianti se lo ricordano, l’assassino. Girava con altri universitari, comprava il necessario per un giovane; non era uno isolato ma anzi si aggregava, specie al bar Jeraba, nella piazzetta dell’ufficio postale, chiacchiere e risate bevendo con lentezza il caffè e mai ordinando alcolici.
Il killer frequentava due moschee, una delle quali, simile a una piccola abitazione, figura nell’elenco di quelle chiuse, dalle undici di ieri, dal ministro dell’Interno in quanto «luogo di terroristi». La presenza nelle moschee di Rezgui, confermata dai testimoni come i proprietari delle botteghe vicine e in particolare un venditore di tappeti (all’entrata ha ben in evidenza la fotografia d’una ragazza velata), è un dato acquisito degli investigatori. Ma soltanto adesso. Se in una fase iniziale non avevano avuto nulla da segnalare sullo stragista nemmeno gli attenti e preparati servizi segreti, il quadro è clamorosamente cambiato.
Il percorso di Rezgui ha avuto in passato snodi importanti. Forse fondamentali. Agli studi universitari in Ingegneria informatica, il 23enne avrebbe unito le lezioni dell’imam Malik, a Tunisi, nell’istituto di Scienze forensi «palestra» dei salafiti richiamati alla perfetta conoscenza della religione e alla militanza. Le preghiere e l’azione. Ma l’azione, nel caso di Rezgui, è nota nella parte terminale — un giovane in costume con il kalashnikov nascosto nell’ombrellone — e misteriosa nella fase preparatoria. Il kalashnikov, ad esempio. Come se l’è procurato? Fino alla primavera araba del 2011, in Tunisia c’era ampia disponibilità di armi. Da allora, gli arsenali sono diminuiti. Le forze dell’ordine hanno dedicato indagini per stanare pistole, mitragliatrici e bombe, seppellite nei ruderi delle montagne. Dopo l’attentato al museo del Bardo, a marzo, sono stati rafforzati i controlli nella parte debole, crocevia di mille traffici, al confine con la Libia, che Rezgui non avrebbe mai visitato, magari per allenarsi in un campo dell’Isis. Sul suo passaporto non risultano timbri di viaggi all’estero. Forse ha barato, e s’è mosso clandestinamente. Ci dice il commerciante di un negozio di cover rosa e marroni per l’Iphone, a pochi metri dall’arco d’ingresso della medina: «Viviamo in queste vie strette e corte. Ci conosciamo, ci incontriamo. Il ragazzo? Educato, alla mano. Uguale a mille altri che mi passano davanti».