A Kobane la strage degli innocenti (nel silenzio del mondo)
Parlare di «guerra», «conquista» o «ritirata» ha poco senso se riferito al recente attacco dell’Isis contro la città curda di Kobane. I termini militari non spiegano, semmai mascherano quella che è stata l’essenza di quest’operazione, che può essere riassunta in due parole: puro terrorismo. Il fine infatti era spaventare i civili, ucciderli in modo spietato, sparare contro tutti, specie bambini, donne, vecchi. Terrorizzarli e spingerli a scappare oltre il confine, in Turchia. E di più: impaurire e demotivare i loro combattenti, i volontari che vorrebbero aiutarli, lottare al loro fianco. Più volte dall’inizio dell’infiltrazione jihadista giovedì mattina a Kobane si è parlato di «sconfitta curda» e ancora oggi c’è chi dice che i curdi avrebbero «ripreso la città». In realtà, non l’avevano mai persa. Le prime linee curde sono una trentina di chilometri più avanti, le loro avanguardie ultimamente hanno persino minacciato direttamente le strade di collegamento tra Raqqa, considerata la capitale di Isis in Siria, e il confine con la Turchia. I militanti dell’Isis invece si erano infiltrati travestendosi con le uniformi delle milizie alleate ai curdi e per rendere più effettivo il loro blitz erano ricorsi alle tradizionali autobomba kamikaze. Ma va subito chiarito che il loro fine non era prendere la città. Sanno bene che dall’aria i caccia della coalizione guidata dagli americani avrebbero impedito qualsiasi azione del genere. Il loro obbiettivo era allo stesso tempo più semplice, ma anche più ambizioso: demotivare i curdi, soprattutto lanciare l’ennesimo messaggio di minacciosa, spietata violenza a tutti i loro avversari. Le testimonianze che arrivano da Kobane raccontano dell’accanimento dei jihadisti contro la gente nelle case, famiglie intere sterminate nella notte. Le ultime cifre segnalano oltre 210 morti. L’Isis ha ottenuto ciò che voleva. E il mondo ancora una volta assiste impotente.