Ramadan La strategia dell’Isis
Dagli anni Novanta, i qaedisti agiscono nel mese sacro: perché gli allarmi sono reali
Hanno ancora tempo. Almeno fino al 17 luglio, quando si chiuderà il Ramadan. Mese che i buoni musulmani dedicano alla preghiera e al digiuno. Mese che i killer islamisti «santificano» con i massacri. Una manipolazione religiosa non recente: lo predicavano i terroristi algerini negli Anni 90, lo ha fatto Abu Musab al Zarkawi in Iraq nel 2004 e nel 2005, lo hanno ribadito fazioni qaediste dall’India all’Indonesia. Per questo i servizi di sicurezza si attendono nuovi colpi.
Il premier francese Manuel Valls ha avvertito i connazionali: preparatevi ad altre sorprese. L’Fbi ha messo in guardia militari e cittadini su possibili attentati in concomitanza della festa nazionale del 4 Luglio. Allarmi generici, timori veri in quella che considerano una
Dunque il saggio e intelligente è colui che aspira alla jihad e alla battaglia durante il Ramadan. Non c’è altro atto di fede che eguagli la jihad. E la jihad durante il Ramadan non è eguagliata da nessuna jihad in altri mesi. Sia perciò benedetto colui che sceglie il Ramadan per farsi guerriero per la causa di Allah, e sia benedetto colui che Allah sceglie e accetta come martire in questo mese santo. Allah può aumentare di dieci volte la ricompensa del martirio durante il Ramadan in paragone agli altri mesi. Perciò, o musulmani, prendete parte alla jihad, affrettatevi. E cari mujaheddin che siete ovunque, muovetevi per fare il Ramadan un mese di disastri per gli infedeli Abu Muhammad al Adnani Differenze Al Qaeda preparava gli attacchi a lungo: lo Stato islamico invece si affida a simpatizzanti
minaccia «globale» che continua ad allargare il territorio. Termine forse esagerato che però tiene conto del flusso di comunicazioni uscite dallo Stato islamico e da gruppi simili. Parole accompagnate da attacchi non tutti da attribuire per forza al Califfo, ma dove i protagonisti si ritrovano in questa ideologia. Contano l’impatto, sanguinoso, e la percezione.
Lo Stato islamico ha iniziato con l’assalto a Kobane, dove ha massacrato duecento civili, molte le donne e i bambini. Ha proseguito in Kuwait con una rivendicazione netta. Poi la strage di Sousse, con un’assunzione di responsabilità dell’Isis arrivata dopo molte ore. Forse motivi di sicurezza hanno rallentato il messaggio sul web con la foto del terrorista, Seifeddine Rezgui. Oppure è stato un modo per accodarsi. Un complice ha trasmesso l’immagine ed è partito il post su Internet. Resta orfana l’azione di Isère, attuata dal «solito sospetto», Yassine Salhi, così simile ad altri protagonisti di attacchi in Europa e in particolare in Francia. Il tagliatore di teste di Saint- Quentin, però, potrebbe aver agito sotto l’influenza (se non ispirazione) dell’appello alla lotta lanciato solo pochi giorni fa da Abu Mohammad al Adnani, la voce dell’Isis.
Per il dirigente un atto di jihad condotto durante il Ramadan non ha eguali, infatti «Allah può aumentare la ricompensa per chi sceglie il martirio» durante il mese sacro. Sottolineatura accompagnata dall’esortazione rivolta ai mujaheddin a colpire «ovunque». Qui non si citano la Francia, la Tunisia e neppure Kuwait City ma chi è in ascolto può avere interpretato quel discorso generico come un ordine diretto in una catena di comando invisibile.
Il discorso di Al Adnani si è sovrapposto a quelli più locali, a cominciare dalle minacce contro i turisti pronunciate dai «soldati del Califfato» tunisini ai primi di maggio. Era l’inizio della stagione estiva, dunque il momento propizio per lanciare un monito. Vero è che ne lanciano tanti nell’intento di spargere il terrore e il panico. Pochi caratteri su un social network usati come un tamburo di guerra per dire «stiamo arrivando». Lo faceva già Bin Laden, con le sue offerte di tregua prima di liberare gli attentatori suicidi. Lo ripete Al Baghdadi, il leader dello Stato islamico. Solo che adesso è tutto molto più veloce.
Cambiano anche gli interpreti. Osama e i suoi erano spesso ossessionati dalla preparazione dell’attentato, il piano richiedeva tempo. Al Qaeda aveva davvero preparato i suoi uomini e non voleva rischiarli inutilmente. Aveva i facilitatori, gli organizzatori, chi procurava documenti ed esplosivo. L’Isis ha superato questa fase. Se è in grado e ha gli uomini sul posto, bene: prepara e colpisce. Altrimenti si affida al simpatizzante, prova ad attirare il membro di un gruppo già esistente sotto un’altra etichetta, favorisce la scissione all’interno di gruppo. Poi ingloba l’elemento immerso nella realtà militante, il tipo convinto, che ha studiato da terrorista, ma anche chi trova soddisfazione (o lenimento ai guai della vita) unendosi alla carovana del Califfo.
Più volte, in questi mesi, fonti investigative europee hanno ripetuto che questa seconda categoria non deve essere sottovalutata. Non è uno sminuire la scelta politica di un assassino, bensì la constatazione di profili che continuano a mutare e per questo difficili da seguire. Come dice l’Isis, il peggio deve venire.
Internet Pochi caratteri su un social network sono usati come un tamburo di guerra