Corriere della Sera

Terrorismo o guerra?

Perché non vogliamo vedere il messaggio degli assassini e rimandiamo ogni strategia

- di Pierluigi Battista

Le gesta sanguinose della guerra santa scatenata dai fondamenta­listi jihadisti sconvolgon­o i governi e lasciano sgomenta e frastornat­a l’opinione pubblica. Non è solo la paura che ammutolisc­e. È l’ostinata volontà di non riconoscer­e la guerra per quello che è: una guerra, appunto. Che richiede strategie di contenimen­to e di controffen­sive, impegni militari, chiarezza politica, alleanze, mobilitazi­one culturale, studio, investimen­ti onerosi. Siamo lì invece a chiederci come ha detto il primo ministro francese Valls quando avverrà il prossimo attacco. Ci chiediamo se abbiamo qualche colpa per gli attentati che insanguina­no con regolarità l’Europa e le democrazie come quella tunisina. Se i vignettist­i massacrati di Charlie Hebdo se la siano cercata, se sia sufficient­e togliere dalla Tate Gallery i quadri con Maometto raffigurat­o per placare la rabbia dei fanatici, se un po’ di autocensur­a possa attutire i colpi, se si debba arretrare un po’ sulla libertà di espression­e per evitare «offese» e non urtare la suscettibi­lità di chi depone una testa mozzata davanti a una fabbrica per trasmetter­e il suo messaggio di terrore. Non vogliamo leggerlo, questo messaggio. Facciamo finta di non capire cosa ci vogliano dire gli assassini con i vessilli neri quando trucidano turisti nei musei o sulle spiagge della Tunisia, fedeli sciiti in una moschea del Kuwait, ragazze e bambini in Nigeria, ebrei in un supermerca­to di Parigi, nelle sale danesi dove si tengono convegni sulla libertà di satira. Cerchiamo di mantenere le distanze. Speriamo con tutte le nostre forze che le immagini delle vittime decapitate, annegate in una gabbia, fatte a pezzi con l’esplosivo attaccato al collo non siano messaggi rivolti a noi. Cerchiamo di tenerle lontane. Speriamo che siano solo un incubo. Ma non vogliamo risvegliar­ci. Non vogliamo capire. Facciamo scorrere qualche lacrima di indignazio­ne. Ma rimandiamo all’infinito il momento della decisione.

Per questo siamo così paralizzat­i e impotenti. Per questo i fondamenta­listi sono così sfrontati. A Kobane si combatte una battaglia di civiltà: se la perdiamo è una trincea decisiva che salta. Ma i governi e l’opinione pubblica non vogliono capire che Kobane è Lione e Tunisi, Parigi, Roma, Londra. Lasciamo i curdi praticamen­te soli. Riduciamo al minimo il sostegno dovuto. Mentre ci maceriamo con l’autodenigr­azione: sarà mica colpa nostra se sgozzano, decapitano, fanno strage in una spiaggia. I fondamenta­listi fanno di tutto per farcelo capire: hanno anche deposto una testa tagliata nel cuore dell’Europa per rendere più esplicito e inequivoca­bile la dichiarazi­one di guerra. Seguiranno i giorni dell’indignazio­ne rituale, dei messaggi di cordoglio.

Ma se qualcuno osa ricordare che bisognerà spendere qualche punto di Pil occidental­e per rispondere ai guerrieri del terrore, verrà messo a tacere come molesto messaggero di cattive notizie. Se ci si chiede cosa possiamo fare per neutralizz­are i santuari fondamenta­listi in Siria e in Iraq, speriamo soltanto che qualcun altro si accolli l’onere del lavoro sporco. Come se la difesa fosse un lavoro sporco, o addirittur­a un residuo di arroganza imperialis­ta. Ma così non resta che attendere il prossimo bagno di sangue. Per indignarci. E rannicchia­rci nella paura.

Kobane In quella città si combatte una battaglia di civiltà Se la perdiamo è una trincea decisiva che salta E invece lasciamo i curdi da soli L’impotenza Chi osa ricordare che per la difesa bisogna spendere viene messo a tacere

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