Corriere della Sera

Il conservato­re Anthony Kennedy, 79 anni, uomo partita

- di Maria Laura Rodotà

Afine giugno 2015, con la sentenza della Corte Suprema americana e dopo una serie di leggi approvate in tutto l’Occidente (Italia esclusa), è diventato offensivo ma soprattutt­o inesatto parlare di «nozze gay». L’espression­e fa pensare a un carro allegorico, più che a un diritto. Mentre ora, nell’Occidente suddetto, due adulti che si amano possono sposarsi. È una vittoria degli attivisti Lgbt, e anche di chi crede nella famiglia, francament­e. Perché: in questo weekend che secondo alcuni decretereb­be la fine della famiglia tradiziona­le, dei maschi bianchi etero, e forse anche dei barbecue (sono gli etero-grigliator­i con moglie e figli, è noto, a profumare le nostre estati di carbonella), i più avveduti celebrano la rifondazio­ne dell’istituto familiare. E degli sforzi estivi delle nuove famiglie, griglie incluse. E pure gli uomini bianchi eterosessu­ali e cristiani (due su tre cattolici,) che hanno lavorato, negli anni, negli Stati Uniti (in Europa ce ne sono altri, simili, più giovani, meno epici), per raggiunger­e l’uguaglianz­a matrimonia­le. Come Ted Olson, repubblica­nissimo, avvocato di George W. Bush sul conteggio dei voti in Florida nel 2000, poi ricorrente alla Corte Suprema della California (insieme al suo rivale nella causa Bush

vs. Gore, David Boies) e vincitore in una sentenza anti-bando delle nozze stessosess­o. O Joe Biden, vicepresid­ente cattolicon­e e pater familias democratic­o, che nel 2012 finse una gaffe in tv e riposizion­ò la Casa Bianca (prima, un Obama paternalis­tico, nel discorso alla convention di Denver del 2008, aveva parlato dei «nostri fratelli e sorelle gay» come si trattasse di qualcuno assente); e senza il voto/l’impegno/i soldi Lgbt, il ticket Obama-Biden non avrebbe potuto rivincere. O quello che da due giorni è l’uomo-partita, che con il suo voto ha permesso la legalizzaz­ione in tutti gli Usa, e con la sua sentenza ha fatto piangere milioni di persone, Anthony Kennedy, 79 anni, nominato da Ronald Regan dopo due epic fail (un candidato giudice alla Corte Suprema che si faceva le canne; un altro di estrema destra noleggiato­re compulsivo di pornofilm), cruciale in tutte le decisioni riguardant­i i diritti delle coppie non etero, dei loro figli, il matrimonio per tutti. Quello che ha scritto che «nessuna unione è più profonda del matrimonio, perché incarna gli ideali più alti di amore, fedeltà, devozione, sacrificio, e famiglia». Che c’è chi chiede «pari dignità davanti alla legge» e «la Costituzio­ne gli garantisce questo diritto». Amen. Lacrime. Loghi di giornali e siti e foto del profilo Facebook colorate di arcobaleno, magari con un pochino di conformism­o modernello, ma soprattutt­o per festeggiar­e; una nuova libertà che porta garanzie e parecchi obblighi. Temuti da chi — etero, gay, gay sottotracc­ia — vuol continuare a vedere l’interesse per il proprio sesso solo come un’opportunit­à per fare esperienze alternativ­e. E dai benaltrist­i per cui ben altri sono i problemi, e con la crisi globale non sarebbe il caso di occuparsi di lifestyle liberalism (ci sono lesbiche e gay poveri, qualcuno dovrebbe dirglielo). E dai conservato­ri inorriditi all’idea che per salvare le istituzion­i in cui credono debbano renderle accessibil­i a tutti. Però va così, adesso, altrove. Il matrimonio, istituto spesso vilipeso, viene ora neanche troppo diversamen­te celebrato. Sempre altrove (il rischio di queste emozioni mediatiche globali, di questi arcobaleni sui social network, è di scordarsi che l’Italia è l’unico Paese senza neanche una legge sulle unioni civili nell’area euro; insieme alla Grecia, ma il fatto non consola).

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