Lungo le coste si naviga nel segno dell’Utopia
Le carte nautiche medievali, di produzione italiana, maiorchina o catalana, erano formidabili dispositivi al cui interno, senza nessun riferimento ai dati astratti, si condensava il carico di millenni di pratica marinaresca, l’impronta dello sguardo dell’ignoto marinaio che ancora si posa, senza che se ne abbia più memoria, sul viso del nostro Paese. Si faccia ad esempio caso, nella sezione centrale del litorale adriatico, ai due più antichi centri costieri, Ortona ed Ancona: il cui nome, che rispettivamente significa «diritta» e «a gomito», si riferisce alla città e insieme alla forma del tratto di costa alla cui base essa sorge, e da cui risulta inseparabile come sua espressione. Dopo le carte nautiche vennero gli isolari, che ancora rappresentavano le terre come davvero esse sono: brani solidi che emergono dal mare ancora come luoghi, cioè dotati di qualità specifiche e irriducibili a quelle degli altri. Il modello spaziale, che cancella ogni differenza qualitativa in funzione di un unico quantitativo criterio di misurazione, trionferà soltanto a partire dalla seconda metà del Cinquecento, con l’avvento degli atlanti e l’invenzione del concetto di «continente», le cui coste funzionano da confini e perciò sono anch’esse ridotte ad un’esile astratta linea geometrica: altrimenti la faccia della Terra non potrebbe diventare il regno dell’ equivalenza e di conseguenza della velocità, secondo il grande progetto che fonda l’intera modernità, ma che ai giorni nostri la globalizzazione ha superato. Sicché ogni motonauta alla riscoperta in velocità dei valori locali della costa dovrebbe sapere che il suo viaggio è la forma contemporanea assunta dall’antico sogno dei primi moderni: il sogno della possibile conciliazione tra luogo e spazio cui Tommaso Moro dava il nome di Utopia.