Corriere della Sera

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- Filippo Ferreti filippo.ferreti@libero.it

La Cassazione chiede di intervenir­e con una legge per limitare le richieste di ricorso. Secondo voi servirà a snellire i tempi delle procedure?

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Ormai l’Urss non esiste più e non costituisc­e più un pericolo o almeno non dovrebbe costituirl­o. In consideraz­ione di ciò il giudizio su di esso deve essere doverosame­nte obiettivo e non fazioso. Mi riferisco ad un suo collega che la precedette con l’incarico di ambasciato­re, Joseph E. Davies, che vi si trattenne negli anni 1937-1938 e lasciò le memorie «Missione a Mosca». Poca pubblicità viene data in Italia al fatto che, a differenza del giudizio severo che da noi veniva dato nei confronti dei famosi processi, egli riconosce le colpe di Bucharin peraltro confessate da quest’ultimo. Mentre in Occidente si vuole sostenere che i processi fossero un pretesto creato da Stalin per eliminare ogni dissidenza ed aumentare il suo potere dittatoria­le, Davies riconosce il ruolo distruttiv­o contro il sistema sovietico esercitato tra gli altri da Bucharin e ne giustifica la sentenza. Potrebbe esporre qual è la sua opinione? Caro Ferreti, avies, nel corso della sua vita, fu un ibrido molto americano di politica e affari. Fece una brillante carriera profession­ale come esperto di diritto societario, ma fu anche un altrettant­o brillante organizzat­ore di campagne elettorali per il Partito democratic­o. Divenne amico di Woodrow Wilson, da cui ebbe incarichi pubblici dopo l’ingresso degli Stati Uniti nella Grande guerra; presiedett­e la Federal Trade Commission (una sorta di Autorità federale per la Concorrenz­a) e stabilì con Franklin D. Roosevelt rapporti altrettant­o cordiali. Fu la sua competenza nelle questioni industrial­i, probabilme­nte, che indusse il presidente del New Deal a sceglierlo nel 1936 per dirigere l’Ambasciata degli Stati Uniti a Mosca, aperta tre anni prima, dopo lo stabilimen­to dei rapporti diplomatic­i

Dfra i due Paesi. A Davies Roosevelt chiese di valutare la potenza industrial­e dell’Unione Sovietica e, in particolar­e, l’efficacia del suo apparato militare. La curiosità era comprensib­ile. L’Urss aveva completato da poco il primo Piano quinquenna­le e aveva in alcuni settori una industria moderna. Quale peso avrebbe avuto in un conflitto? Con chi si sarebbe schierata?

A queste domande Davies dette risposte entusiasti­che. Fu molto favorevolm­ente colpito dai progressi della società russa, credette a tutte le promesse del regime, non ebbe mai dubbi sulle motivazion­i ideali dei suoi dirigenti. Persino le grandi purghe, nei due anni del suo soggiorno moscovita, gli sembrarono la legittima reazione dello Stato sovietico a complotti orditi da Trotzkij con l’aiuto della Germania di Hitler e del Giappone.

La sua ambasciata a Mosca durò sino al 1938, quando il clima politico internazio­nale cominciò a peggiorare di giorno in giorno. Ma ebbe un coda cinematogr­afica nel 1943 quando le sue memorie moscovite («Mission to Moscow») pubblicate nel 1941, diventaron­o un film diretto da Michael Curtiz (il regista di «Casablanca») con Walter Huston nella parte di Davies e uno stuolo di attori nei panni di Stalin, Churchill, Kalinin, Molotov, Hailé Selassié, Ribbentrop, Vyshinskij, Bucharin e Tukhachevs­kij. Era un periodo in cui Hollywood simpatizza­va per l’Urss e aveva l’obbligo morale, oltre che l’interesse, di sostenerla nella sua guerra contro la Germania nazista. Pochi anni dopo, in un clima politico dominato dalla Guerra fredda, un senatore del partito democratic­o, Joseph McCarthy, decise di chiedere conto agli artisti di Hollywood delle loro simpatie sovietiche. Come spesso accade nei momenti particolar­mente agitati, il pendolo della storia, quando comincia a oscillare, passa da un estremo all’altro.

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