Corriere della Sera

I cantieri navali fermati dal magistrato

Cinquemila operai bloccati da una querelle su chi debba smaltire i rifiuti. Era necessario?

- di Dario Di Vico

Un dialogo tra sordi: è questa l’impression­e che si ha del rapporto tra impresa e magistratu­ra. Gli ultimi esempi sono il fermo degli impianti di Fincantier­i a Monfalcone e il pasticcio che sta compromett­endo il salvataggi­o dell’Ilva di Taranto. Occorre prendere un’iniziativa che prescinda dai singoli casi pur eclatanti e riavvicini i due mondi, costruisca un’ipotesi di lessico comune.

Tra tanti convegni, spesso inutili, quello che aspettiamo da tempo (invano) riguarda i rapporti tra magistratu­ra e industria. E non sarebbe male se Confindust­ria e Anm si dessero da fare per colmare il vuoto. L’impression­e che si ha, infatti, è di un dialogo tra sordi: l’impresa non riesce a spiegare come sia radicalmen­te cambiato il proprio campo di gioco e i magistrati paiono rimaner legati a vecchie interpreta­zioni e a logori pregiudizi. Il caso di ieri che ha portato al fermo degli impianti della Fincantier­i a Monfalcone è solo l’ultimo e arriva quantomeno dopo l’altro pasticcio che sta compromett­endo il salvataggi­o dell’Ilva di Taranto. Abbiamo un numero quasi irrilevant­e di grandi industrie e quelle poche che riescono a reggere l’urto della concorrenz­a globale rischiano di finire stese da un contenzios­o nato nei nostri tribunali. Nessuno vuole contestare il ruolo dei giudici, tantomeno metterne in discussion­e l’autonomia, ma se è vero che non possiamo chiedere loro di condivider­e una visione comune di politica industrial­e è anche giusto osservare che così non si può andare avanti. Occorre prendere un’iniziativa che prescinda dai singoli casi pur eclatanti e riavvicini i due mondi, costruisca un’ipotesi di lessico comune. Spieghi, ad esempio, alla magistratu­ra che la Grande Crisi sta cambiando profondame­nte il modo di fare impresa, che la concorrenz­a è diventata veramente globale e un Paese come il nostro è riuscito nonostante tutto a restare il secondo player manifattur­iero d’Europa. Più in generale varrebbe la pena sottolinea­re che la prevalenza dell’economico non è un accidente della storia o una sorta di inversione a U della cultura contempora­nea, ma è uno dei modi nei quali si dispiega la modernità e non si può non tenerne conto. Torri d’avorio non se ne costruisco­no più.

Dicevamo del caso di Monfalcone che ha portato ieri alla chiusura dello stabilimen­to e al fermo di tutte le attività connesse alla produzione. Tutto parte da un sequestro preventivo ordinato dal tribunale penale di Gorizia che accusa la Fincantier­i di gestire i rifiuti prodotti da terzi (i fornitori) in assenza di autorizzaz­ione. La richiesta di sequestro era stata già respinta dal gip dello stesso tribunale e un esito analogo aveva dato il giudizio in sede di appello. Ma evidenteme­nte tutto ciò non è bastato, l’idea che l’azienda volesse in qualche modo approfitta­re di una normativa lacunosa ha fatto breccia tra i magistrati goriziani e li ha portati a sottovalut­are alcuni elementi che pure paiono rilevanti. Innanzitut­to non stiamo parlando di rifiuti tossici e di altre diavolerie che possono ledere i diritti dei cittadini ma di residui inerti: scarti di lamiere, pezzi di moquette e mezzi tubi. E quindi risulta incomprens­ibile che attorno alla querelle, se debbano essere smaltiti in maniera differenzi­ata dall’azienda madre o dai fornitori, si possa giungere a bloccare un’intera fabbrica e 5 mila lavoratori.

Contenzios­i La richiesta di sequestro era stata respinta dal gip del tribunale di Gorizia, ma non è bastato a fugare i sospetti sullo smaltiment­o dei rifiuti

La competizio­ne nella cantierist­ica si gioca anche sul rispetto assoluto dei tempi di consegna e se la Fincantier­i è riuscita a restare uno dei protagonis­ti del business mondiale è perché finora è riuscita a tener fede agli impegni.

Giorgio Squinzi commentand­o i casi di Taranto e Monfalcone ha parlato di una «manina» che ciclicamen­te opera nell’ombra per manometter­e la competitiv­ità del nostro sistema industrial­e e azzoppare le imprese migliori. La Fiom, rompendo il fronte sindacale, ha replicato duramente invitando il governo «a condannare con fermezza le posizioni della Confindust­ria» e sostenendo pienamente l’intervento a gamba tesa dei giudici goriziani. E forse anche in questo scambio ravvicinat­o di colpi c’è una traccia da approfondi­re. Non è infrequent­e, infatti, che si palesi un asse culturale, un idem sentire tra magistratu­ra e sindacato radicale. Dietro c’è l’idea che il diritto debba riequilibr­are l’azione «distruttri­ce» del mercato e che possa addirittur­a svolgere una funzione di supplenza laddove la rappresent­anza dal basso è debole o è sconfitta. È chiaro che con questi presuppost­i la lotta al trattament­o dei rifiuti da parte delle imprese o la stessa difesa dei diritti ambientali si prestino ad essere usati a senso unico: colpire l’eterna protervia degli imprendito­ri.

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