I cantieri navali fermati dal magistrato
Cinquemila operai bloccati da una querelle su chi debba smaltire i rifiuti. Era necessario?
Un dialogo tra sordi: è questa l’impressione che si ha del rapporto tra impresa e magistratura. Gli ultimi esempi sono il fermo degli impianti di Fincantieri a Monfalcone e il pasticcio che sta compromettendo il salvataggio dell’Ilva di Taranto. Occorre prendere un’iniziativa che prescinda dai singoli casi pur eclatanti e riavvicini i due mondi, costruisca un’ipotesi di lessico comune.
Tra tanti convegni, spesso inutili, quello che aspettiamo da tempo (invano) riguarda i rapporti tra magistratura e industria. E non sarebbe male se Confindustria e Anm si dessero da fare per colmare il vuoto. L’impressione che si ha, infatti, è di un dialogo tra sordi: l’impresa non riesce a spiegare come sia radicalmente cambiato il proprio campo di gioco e i magistrati paiono rimaner legati a vecchie interpretazioni e a logori pregiudizi. Il caso di ieri che ha portato al fermo degli impianti della Fincantieri a Monfalcone è solo l’ultimo e arriva quantomeno dopo l’altro pasticcio che sta compromettendo il salvataggio dell’Ilva di Taranto. Abbiamo un numero quasi irrilevante di grandi industrie e quelle poche che riescono a reggere l’urto della concorrenza globale rischiano di finire stese da un contenzioso nato nei nostri tribunali. Nessuno vuole contestare il ruolo dei giudici, tantomeno metterne in discussione l’autonomia, ma se è vero che non possiamo chiedere loro di condividere una visione comune di politica industriale è anche giusto osservare che così non si può andare avanti. Occorre prendere un’iniziativa che prescinda dai singoli casi pur eclatanti e riavvicini i due mondi, costruisca un’ipotesi di lessico comune. Spieghi, ad esempio, alla magistratura che la Grande Crisi sta cambiando profondamente il modo di fare impresa, che la concorrenza è diventata veramente globale e un Paese come il nostro è riuscito nonostante tutto a restare il secondo player manifatturiero d’Europa. Più in generale varrebbe la pena sottolineare che la prevalenza dell’economico non è un accidente della storia o una sorta di inversione a U della cultura contemporanea, ma è uno dei modi nei quali si dispiega la modernità e non si può non tenerne conto. Torri d’avorio non se ne costruiscono più.
Dicevamo del caso di Monfalcone che ha portato ieri alla chiusura dello stabilimento e al fermo di tutte le attività connesse alla produzione. Tutto parte da un sequestro preventivo ordinato dal tribunale penale di Gorizia che accusa la Fincantieri di gestire i rifiuti prodotti da terzi (i fornitori) in assenza di autorizzazione. La richiesta di sequestro era stata già respinta dal gip dello stesso tribunale e un esito analogo aveva dato il giudizio in sede di appello. Ma evidentemente tutto ciò non è bastato, l’idea che l’azienda volesse in qualche modo approfittare di una normativa lacunosa ha fatto breccia tra i magistrati goriziani e li ha portati a sottovalutare alcuni elementi che pure paiono rilevanti. Innanzitutto non stiamo parlando di rifiuti tossici e di altre diavolerie che possono ledere i diritti dei cittadini ma di residui inerti: scarti di lamiere, pezzi di moquette e mezzi tubi. E quindi risulta incomprensibile che attorno alla querelle, se debbano essere smaltiti in maniera differenziata dall’azienda madre o dai fornitori, si possa giungere a bloccare un’intera fabbrica e 5 mila lavoratori.
Contenziosi La richiesta di sequestro era stata respinta dal gip del tribunale di Gorizia, ma non è bastato a fugare i sospetti sullo smaltimento dei rifiuti
La competizione nella cantieristica si gioca anche sul rispetto assoluto dei tempi di consegna e se la Fincantieri è riuscita a restare uno dei protagonisti del business mondiale è perché finora è riuscita a tener fede agli impegni.
Giorgio Squinzi commentando i casi di Taranto e Monfalcone ha parlato di una «manina» che ciclicamente opera nell’ombra per manomettere la competitività del nostro sistema industriale e azzoppare le imprese migliori. La Fiom, rompendo il fronte sindacale, ha replicato duramente invitando il governo «a condannare con fermezza le posizioni della Confindustria» e sostenendo pienamente l’intervento a gamba tesa dei giudici goriziani. E forse anche in questo scambio ravvicinato di colpi c’è una traccia da approfondire. Non è infrequente, infatti, che si palesi un asse culturale, un idem sentire tra magistratura e sindacato radicale. Dietro c’è l’idea che il diritto debba riequilibrare l’azione «distruttrice» del mercato e che possa addirittura svolgere una funzione di supplenza laddove la rappresentanza dal basso è debole o è sconfitta. È chiaro che con questi presupposti la lotta al trattamento dei rifiuti da parte delle imprese o la stessa difesa dei diritti ambientali si prestino ad essere usati a senso unico: colpire l’eterna protervia degli imprenditori.