Corriere della Sera

Angela perde la battaglia (per vincere la guerra)

Così la cancellier­a sacrifica la battaglia greca per superare un’altra prova: salvare l’Europa

- Di Danilo Taino

Èuna decisione rischiosa, ma in parte obbligata e potenzialm­ente saggia quella adottata dalla cancellier­a Merkel nel finale della partita greca: sacrificar­e il breve termine per il lungo. Cioè, non salvare necessaria­mente la Grecia rinnegando i principi, ma cercare di proteggere l’euro e l’Unione.

Nel finale della partita greca, Angela Merkel ha scelto di sacrificar­e il breve termine per il lungo: non salvare necessaria­mente la Grecia rinnegando i principi ma cercare di proteggere l’euro. Decisione rischiosa: non si può sapere cosa abbia in serbo il futuro. Ma decisione in parte obbligata e potenzialm­ente saggia: l’evoluzione della realtà è spesso benigna per gli statisti pronti a perdere una battaglia per vincere la guerra.

La rottura delle trattative tra creditori e Atene è una sconfitta per la cancellier­a, che per mesi ha cercato il compromess­o. Non è riuscita a esercitare quella leadership che le chiedevano mezza Europa, la Washington di Barack Obama, politici e autorità economiche dall’Asia al Sudamerica. Non solo: se la crisi greca non sarà gestita con maestria dalla stessa signora Merkel e dall’Eurozona, potrebbe iniziare il tramonto dell’Unione europea come l’abbiamo conosciuta, quella uscita dalla Guerra fredda, modello di pace a espansione continua. La «ragazza» un tempo pupilla del «cancellier­e della riunificaz­ione» tedesca e dell’Europa unita, Helmut Kohl, passerebbe alla storia come la cancellier­a della divisione del Vecchio Continente. In gioco c’è molto, per la leader e per l’intera Ue.

A questa situazione si è arrivati per più di un motivo. Frau Merkel voleva con determinaz­ione un accordo con Atene. La sua convinzion­e-ritornello è sempre stata «se fallisce l’euro, fallisce l’Europa». Aveva però di fronte due ostacoli non indifferen­ti. Sul piano interno, una maggioranz­a dell’opinione pubblica tedesca contraria a dare nuovi aiuti alla Grecia in cambio di nulla; sostenuta da una larga maggioranz­a di parlamenta­ri. Sul piano esterno, un gruppo nutrito di partner dell’Eurozona che non avrebbe mai accettato regali ad Atene: perché i sacrifici per rimettere in piedi le loro finanze pubbliche li avevano fatti, ad esempio Irlanda, Portogallo, Spagna, Lettonia; oppure perché con redditi pro capite (e salari minimi) più bassi di quelli greci, ad esempio la Slovacchia e la Lituania.

A questo si aggiungeva una crescente sfiducia nel governo greco di Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis, che conduceva le trattative in modo da convincere via via praticamen­te tutti in Europa che in realtà non volesse un accordo ma solo soldi. In questa cornice, fare la scelta di dare denaro ad Atene senza un programma di riforme avrebbe voluto dire non solo mettersi contro tutti, in Germania e in Europa: avrebbe significat­o soprattutt­o rimuovere la pietra angolare dell’Eurozona a 19 Paesi, cioè il fatto che l’unico modo per sperare di stare assieme in un’Unione monetaria è rispettarn­e le regole. Superata quella linea rossa, liberi tutti, qualsiasi cosa sarebbe potuta succedere. Lunedì ha spiegato che se l’Europa rinnegasse i suoi principi «anche solo momentanea­mente, nel medio e lungo termine ne soffrirebb­e i danni». Tra cercare di vincere una battaglia sbagliata e cercare di vincere una guerra giusta, la cancellier­a ha scelto la seconda strada. E ha dunque modificato il paradigma: salvare l’euro per salvare l’Europa non comporta più l’obbligo di salvare Atene.

Il problema è che, in qualsiasi modo finisca, la campagna di Grecia ha lasciato sul terreno feriti. Un Paese nel caos. Enormi dubbi sulla capacità politica dei leader europei. La dimostrazi­one della fragilità dell’architettu­ra su cui poggia l’Unione monetaria. Si dice che di solito la Ue non spreca le proprie crisi, le usa per andare avanti nell’integrazio­ne. Come fare, anche in questo caso, non è un mistero. Sul tavolo dei governi è arrivato da pochi giorni un documento, il «Rapporto dei 5 presidenti», che propone quali misure prendere per rafforzare la governance dell’Eurozona e in quali fasi farlo. Lo hanno preparato Jean-Claude Juncker, Mario Draghi, Donald Tusk, Jeroen Dijsselblo­em, Martin Schulz. È ambizioso: punta a una progressiv­a convergenz­a struttural­e delle economie dell’euro, a un’unione economica, finanziari­a, di bilancio e politica che in un decennio dovrebbe essere realizzata.

Finora, Frau Merkel non ha preso l’occasione di questo documento per cercare di rilanciare la credibilit­à dell’Europa di domani. L’aspettativ­a è che lo faccia forse già dalla settimana prossima: d’altra parte, il Rapporto e la riforma della Ue chiesta dalla Gran Bretagna sono le due occasioni che l’Europa ha per non finire, dopo la crisi greca, in un gomitolo di recriminaz­ioni, accuse reciproche e chiusure ma di rilanciare una prospettiv­a. Strada impervia. Ma l’alternativ­a, per Frau Merkel, è passare alla storia come colei che disfece ciò che Kohl costruì.

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ILLUSTRAZI­ONE DI MIRCO TANGHERLIN­I
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