COME USCIRE DALLA SINDROME DI DON ABBONDIO
Lo stato dell’Unione Anche la questione greca ci indica i problemi che non riusciamo a superare: egoismi nazionali, tecnicismi esasperati, agende palesi e segrete
Egoismi nazionali, agende palesi e occulte, tecnicismi esacerbanti: il caso greco è emblematico dei problemi che rischiano di far fallire l’Europa. All’Unione Europea occorre un salto di qualità, una riforma dei Trattati. I governanti dovrebbero trovare il coraggio, ma… don Abbondio insegna.
In Europa, in queste ore, seguiamo il susseguirsi delle notizie sulla questione Grecia, con l’articolata, tesa dialettica fra Angela Merkel, Jean-Claude Juncker e Alexis Tsipras, con spiragli di trattativa che si aprono e si richiudono. Preoccupati da questa e dalle altre molteplici emergenze, è inevitabile chiedersi se coloro che hanno o vorrebbero la responsabilità di governare, siano effettivamente adeguati alla gravità del momento.
Qualcuno fra noi, magari in base alle convinzioni politiche, risponde in modo affermativo o negativo; ma in maggioranza altaleniamo fra dubbi e speranze. Le esperienze del passato, molto citate in questi giorni, non confortano: ci sono precedenti virtuosi e disastrosi. Quando guardiamo all’Unione europea, le variabili dell’interrogativo aumentano: i meccanismi, le sue decisioni o indecisioni sono spesso difficili da capire e sembrano sempre guidate da «altri». Dunque, i cittadini sono spiazzati rispetto ai tradizionali parametri della democrazia rappresentativa. Dobbiamo, allora, concludere che l’Unione è parte del problema, anziché della soluzione? La risposta onesta non è univoca, ma va cercata; soprattutto in questi giorni in cui tutto appare in equilibrio precario, quasi fossimo sulle montagne russe.
La patologia più evidente dell’Unione è di non essersi evoluta al passo con gli eventi che hanno radicalmente cambiato il mondo negli ultimi venticinque anni. Dopo le guerre mondiali, fu lungimirante creare la Comunità Europea, latrice di decenni di pace, crescita economica e benessere, con istituzioni strutturate per gli obiettivi comuni e la salvaguardia degli interessi nazionali più rilevanti. Il sistema ha funzionato fino a una micidiale sequenza, in gran parte imprevista: la fine dell’Urss e della «cortina di ferro»; l’allargamento dell’Ue (in dieci anni, da 12 a 25 membri; ora, 28); l’istituzione dell’unione monetaria e dell’euro; la rapida crescita di nuove potenze economiche che superano quelle europee; la globalizzazione commerciale e finanziaria; la terribile crisi economica; le numerose, contemporanee guerre e tensioni in aree vicine all’Europa o addirittura europee; le sanguinarie forme di terrorismo internazionale. Oggi, l’Unione, con assetti operativi simili a quelli originari, è messa a dura prova: frequenti dispute, crollo di fiducia, le sirene del ritorno alle sovranità nazionali. Equilibri e metodi tradizionali vacillano; sembra perfino evaporata la leggendaria arte del compromesso. Un’Unione imbelle, burocratica e litigiosa, serve poco, non piace, potrebbe sfarinarsi o rompersi. Che ne sarà, allora, del destino dei vari Stati? Davvero crediamo che ciascuno, da solo, affronterà meglio la realtà del mondo odierno e futuro?
Per essere davvero un fattore di soluzione, all’Unione occorre un salto di qualità. Idealmente, una riforma dei Trattati, che sciolga i nodi più palesi, in coerenza con l’auspicio europeista di un approdo federale. Nell’attesa, va varata ogni iniziativa resa possibile dagli attuali Trattati, ma nel genuino spirito dei «padri fondatori». I governanti dovrebbero trovarne il coraggio, ma… don Abbondio insegna. Qui sta, però, il punto.
Se chi vuole governare rincorre il consenso e la cangevole emotività delle opinioni pubbliche, rimarremo prigionieri della dimensione nazionale, delle emergenze, di divisivi interessi contingenti e disparati localismi. Se, invece, assumesse la responsabilità di guidare i cittadini, anche con visione europea e proposte adeguate, l’esito può mutare. Bisogna fare una severa autocritica (collettiva, come Ue e individuale, come singoli Stati membri) e smetterla di accusarsi a vicenda e maramaldeggiare sull’Europa imputandole tutto ciò che non va.
Le preoccupazioni maggiori dei cittadini europei (noi italiani inclusi) sono note, evidenti nei sondaggi: andamento dell’economia, disoccupazione, scurezza (terrorismo) e immigrati. Questi erano, in effetti, i punti discussi dall’ultimo Consiglio europeo; ma i risultati? Come minimo asimmetrici e non pienamente comprensibili. Comunque, offuscati dalla questione Grecia, emblematica delle ambasce europee: egoismi nazionali, agende politiche palesi e occulte, tecnicismi esacerbanti, invasioni di campo. I risultati? C’è l’opzione di procedere con la relazione Juncker (detta dei «5 Presidenti»), un calendario già per i prossimi due anni, a torto sottovalutata nel suo impatto su eurozona e residue sovranità nazionali.
Per le migrazioni, ci sono minimi passi avanti sulla redistribuzione geografica; mentre è ribadito l’arduo compito, degli Stati di primo arrivo, di identificare chi ne può fruire perché ha diritto all’asilo. Sul resto, routine o fraseggiare involuto, anche su temi sensibilissimi, come la lotta comune al terrorismo. Ecco, nel complesso, si vede uno iato, un gap, fra la realtà degli atti e le aspettative dei cittadini. Le sue conseguenze possono aggravarsi, se pensiamo ai nuovi attentati e a cosa sta accadendo in Grecia. L’Unione rischia davvero tutto. La speranza è che chi, fra i leader attuali o venturi — in democrazia, li possiamo cambiare! — ha qualità e volontà, colga l’attimo, abbandoni le sterili polemiche, elabori proposte di ampio respiro, realizzabili e funzionali, le spieghi bene e s’impegni per il tempo necessario a convincere gli altri, con pazienza e capacità negoziale. Allora, forse, cominceremo a vedere l’Europa che vorremmo; finalmente, distinguendoci da chi non la vuole proprio.