A Ivrea il centenario di Emilio Villa
UN ARTISTA CHIAMATO VILLADROME
Talvolta l’occasione di un centenario serve a tirar fuori dall’oblio un artista: narratore, poeta, pittore, musicista non importa. Soprattutto quando il protagonista non ha lasciato discepoli (creati o subìti), che, in qualche maniera potessero ricordarne l’opera, il nome. È quanto avvenuto ad Emilio Villa, il cui centenario della nascita è caduto alcuni mesi fa e che s’è tirato dietro un paio di mostre di disegni, manoscritti, edizioni originali di libri d’arte, tavole visive, poesie scritte a colori su grandi fogli simili a quadri (un po’ come quel romanaccio di Apollinaire che, figlio di un ufficiale italiano e di una polacca, a Roma ci nacque; o quell’andaluso di Rafael Alberti, che nella Città Eterna ci visse per diciott’anni dedicandole libri su libri: «Viene l’autunno / il Papa se ne va con le foglie secche / a Nuova York e San Pietro vaga cantando / finalmente solo in Vaticano!»).
Dopo una rassegna di una settantina di lavori alla Biblioteca comunale di Melzo, adesso il Museo della Carale Accattino di Ivrea espone (fino al 12 luglio) circa duecento opere dell’artista, che fanno parte dell’archivio, donato da Aldo Tagliaferri — amico e sodale di Emilio Villa — e messo insieme in tanti anni di frequentazione con l’artista. Moltissimi gli inediti. Dal 1973, il Museo è diventato un centro di ricerca e archivio per la poesia sperimentale e visiva.
Villa era nato ad Affori (Milano). I suoi compagni di strada? Giancarlo Vigorelli (assieme al quale aveva studiato in seminario a Seveso), Mario Luzi e Oreste Macri (conosciuti nel biennio ’37-’38, quando viveva a Firenze), Mario De Micheli (con cui, nel ’43, partecipò alla Resistenza), Pier Mario Bardi (fondatore del Museo d’arte moderna di San Paolo, quando, nel ’51-’52, Villa si trasferì in Brasile).
Rientrato in Italia, a Roma, il poeta era sempre rimasto «ai margini del mondo culturale ufficiale», anche se tanti artisti dovevano molto alla sua attività di critico militante: Cagli, Capogrossi, Afro, Mirko e, soprattutto, Burri e Perilli, Dorazio, Turcato, Rotella, Manzoni, Bonalumi e altri, compresi Sebastian Matta, Rothko e Moore.
Coltissimo, Villa (conosceva latino, greco, portoghese, provenzale e francese), aveva studiato il sumero e la filologia semitica antica, tradotto l’Odissea e cominciato una nuova versione della Bibbia (incompiuta). Viveva in estrema povertà. Nessuno l’ha descritto meglio di Tagliaferri. Ne Il clandestino: «Conosce l’arte sopraffina di dormire sotto i ponti del Tevere, dopo essersi avvolto in fogli di giornale», «Simpatizza di primo acchito con i nullatenenti e gli emarginati», «Oppone implacabile resistenza alle abitudini borghesi e nutre sommo disinteresse per l’abbigliamento», «Assume l’atteggiamento di un sacerdote al servizio dell’assoluto e non tollera interferenze nello svolgimento delle proprie attività rituali», e così via. Atteggiamenti questi, che, per certi versi, fanno venire in mente un altro poeta dal carattere strambo, capace di litigare col suo più caro amico se si permette di dissentire da lui su come friggere le melanzane.
Parliamo di Valentino Zeichen. Che a Roma, se non dorme proprio sotto i ponti, vive in una sorta di baracca che è come se lo fosse. E che, come Villa, fa centomila cose e sempre di corsa. «Villa sempre in corsa» ( Villadrome), lo aveva chiamato Duchamp nel 1963. La vita bohémienne non aveva fermato la sua attività di poeta e critico, sino a quando, nel 1986, venne colpito da un ictus. Da allora era sopravvissuto grazie alla Legge Bacchelli. Nel 2003, la fine.