DIRITTI E RESPONSABILITÀ CHE CAMBIANO AI TEMPI DEL CAR-SHARING
Investiti per strada da una App, di chi è la colpa? Potrebbe sembrare uno scherzo e invece la domanda nasce da un dramma: sulle strade di San Francisco una bambina di sei anni, Sofia Liu, è morta dopo essere stata investita da un autista di Uber. E il caso sta acquisendo sempre più massa critica per la dinamica del fatto. Secondo l’accusa della famiglia della bambina l’autista, al momento dell’incidente, stava guardando l’applicazione di Uber per raccogliere dei clienti e quella distrazione da App è stata fatale. La questione non è di lana caprina perché a causa di questo particolare Uber è stata coinvolta nel processo e deve ora difendersi sulle pratiche di lavoro diffuse nel car-sharing. Da una parte sarebbe facile argomentare che è una questione di educazione stradale: sempre più spesso siamo distratti dalla tecnologia, spedendo messaggi o guardando email anche alla guida. E non andrebbe fatto. Chiaro. Ma nel caso degli autisti di Uber c’è dell’altro perché interagire con l’applicazione è parte integrante del loro lavoro. Il nodo legale non è così facile da sciogliere e, anzi, sembra destinato a complicarsi con le auto che si guidano da sole: se io acquisto una Google Car e la mia automobile investe una persona di chi è la responsabilità (anche penale)? Con le regole attuali può sembrare paradossale ma potrebbe essere del proprietario, anche se non ha le mani sul volante. D’altra parte sembrerebbe assurdo anche che tutte le cause possano essere rivolte in futuro contro Google: arriveremmo alla fine della responsabilità materiale per gli incidenti, se non quella di un soggetto di diritto come la società che sviluppa il sistema di guida. A ben guardare è ciò che accade negli incidenti aerei, dove i controlli sono perlopiù automatizzati e la colpa rimane spesso in bilico tra pilota e computer. La tecnologia va veloce, le leggi vanno lente. Ed è in mezzo a questo guado che rischiamo il paradosso. Corriere.it Sui social network puoi condividere le analisi dei nostri commentatori ed editorialisti. Le trovi su www.corriere.it
Oggi — alla luce, ma non solo, della felice conclusione dei negoziati sul nucleare iraniano — è giusto riconoscere che le riserve e i dubbi allora avanzati di fronte alla scelta del governo italiano di puntare alla nomina di Federica Mogherini ad Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione europea e, quindi, a vicepresidente della Commissione europea, non hanno trovato conferma nei fatti.
L’Unione europea — questo era il ragionamento — non ha vere competenze nella politica internazionale, territorio gelosamente presidiato dai capi di Stato e di governo dei Paesi membri e dai loro ministri degli Esteri. Le esperienze dell’evanescente britannica Lady Ashton e, prima di lei, persino dall’autorevolissimo spagnolo Xavier Solana, già segretario generale della Nato, stavano a dimostrare che quello di Alto Rappresentante è un ruolo sulla carta prestigioso, ma in realtà privo di potere.
Altri sono i campi — il commercio internazionale, la concorrenza — nei quali l’Unione europea e per essa la Commissione ha competenze piene e dirette. Altre, di riflesso, erano le poltrone alle quali mirare se si voleva far pesare la voce dell’Italia e — perché no? — tutelare più da vicino i nostri interessi nazionali.
Siamo chiari. Non solo i capi di Stato e di governo e i ministri degli Esteri non hanno ceduto un grammo dei loro poteri all’Alto Rappresentante ma si è pure rafforzata la pessima abitudine dei due paesi maggiori, Germania e Francia, a sostituirsi con prepotenza ai rappresentanti ufficiali dell’Ue nei passaggi più difficili: vedi gli incontri