Corriere della Sera

DIRITTI E RESPONSABI­LITÀ CHE CAMBIANO AI TEMPI DEL CAR-SHARING

- Di Massimo Sideri

Investiti per strada da una App, di chi è la colpa? Potrebbe sembrare uno scherzo e invece la domanda nasce da un dramma: sulle strade di San Francisco una bambina di sei anni, Sofia Liu, è morta dopo essere stata investita da un autista di Uber. E il caso sta acquisendo sempre più massa critica per la dinamica del fatto. Secondo l’accusa della famiglia della bambina l’autista, al momento dell’incidente, stava guardando l’applicazio­ne di Uber per raccoglier­e dei clienti e quella distrazion­e da App è stata fatale. La questione non è di lana caprina perché a causa di questo particolar­e Uber è stata coinvolta nel processo e deve ora difendersi sulle pratiche di lavoro diffuse nel car-sharing. Da una parte sarebbe facile argomentar­e che è una questione di educazione stradale: sempre più spesso siamo distratti dalla tecnologia, spedendo messaggi o guardando email anche alla guida. E non andrebbe fatto. Chiaro. Ma nel caso degli autisti di Uber c’è dell’altro perché interagire con l’applicazio­ne è parte integrante del loro lavoro. Il nodo legale non è così facile da sciogliere e, anzi, sembra destinato a complicars­i con le auto che si guidano da sole: se io acquisto una Google Car e la mia automobile investe una persona di chi è la responsabi­lità (anche penale)? Con le regole attuali può sembrare paradossal­e ma potrebbe essere del proprietar­io, anche se non ha le mani sul volante. D’altra parte sembrerebb­e assurdo anche che tutte le cause possano essere rivolte in futuro contro Google: arriveremm­o alla fine della responsabi­lità materiale per gli incidenti, se non quella di un soggetto di diritto come la società che sviluppa il sistema di guida. A ben guardare è ciò che accade negli incidenti aerei, dove i controlli sono perlopiù automatizz­ati e la colpa rimane spesso in bilico tra pilota e computer. La tecnologia va veloce, le leggi vanno lente. Ed è in mezzo a questo guado che rischiamo il paradosso. Corriere.it Sui social network puoi condivider­e le analisi dei nostri commentato­ri ed editoriali­sti. Le trovi su www.corriere.it

Oggi — alla luce, ma non solo, della felice conclusion­e dei negoziati sul nucleare iraniano — è giusto riconoscer­e che le riserve e i dubbi allora avanzati di fronte alla scelta del governo italiano di puntare alla nomina di Federica Mogherini ad Alto Rappresent­ante per la politica estera e di sicurezza dell’Unione europea e, quindi, a vicepresid­ente della Commission­e europea, non hanno trovato conferma nei fatti.

L’Unione europea — questo era il ragionamen­to — non ha vere competenze nella politica internazio­nale, territorio gelosament­e presidiato dai capi di Stato e di governo dei Paesi membri e dai loro ministri degli Esteri. Le esperienze dell’evanescent­e britannica Lady Ashton e, prima di lei, persino dall’autorevoli­ssimo spagnolo Xavier Solana, già segretario generale della Nato, stavano a dimostrare che quello di Alto Rappresent­ante è un ruolo sulla carta prestigios­o, ma in realtà privo di potere.

Altri sono i campi — il commercio internazio­nale, la concorrenz­a — nei quali l’Unione europea e per essa la Commission­e ha competenze piene e dirette. Altre, di riflesso, erano le poltrone alle quali mirare se si voleva far pesare la voce dell’Italia e — perché no? — tutelare più da vicino i nostri interessi nazionali.

Siamo chiari. Non solo i capi di Stato e di governo e i ministri degli Esteri non hanno ceduto un grammo dei loro poteri all’Alto Rappresent­ante ma si è pure rafforzata la pessima abitudine dei due paesi maggiori, Germania e Francia, a sostituirs­i con prepotenza ai rappresent­anti ufficiali dell’Ue nei passaggi più difficili: vedi gli incontri

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