Corriere della Sera

Carini a 12 anni, poi basta

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e volete spaventare Banana Yoshimoto fatele bu!, ma per davvero. Corretele incontro. Potrebbe funzionare. Per farla arrabbiare, invece,bastano cose insignific­anti, il niente di tutti i giorni. O anche qualcosa di più, naturalmen­te: l’inerzia dei giovani del suo Paese, ad esempio, un’attitudine disperante che la scrittrice giapponese più nota nel mondo denuncia e prova a contrastar­e a modo suo, col libro al quale lavora, «storie brevi per una nazione che non legge più».

Sotto il limpido passo lento dei suoi libri anche Banana è attraversa­ta da passioni. Dissimulat­e, tenaci. La paura, per cominciare: «Sto vivendo una grande passione per l’omeopatia e da quando coltivo quest’interesse mi è presa una gran paura di tutto quello che non si può prevedere. Sarà perché da piccola avevo problemi alla vista: temevo che qualcosa potesse venirmi addosso all’improvviso e farmi male. In questo senso, secondo me, non c’è niente di peggio degli zombi». Gli zombi? «Gli zombi. Che spuntano di colpo e ti inseguono». Pausa, e fine della parentesi fantastico-cinematogr­afica. «Io sono una persona lenta a elaborare quello che viene dall’esterno, sono lenta a recepire. E mi spaventa la velocità dei tempi». Lenta anche a perdere la pazienza? «Ah, no: mi arrabbio spesso, per moltissimi motivi, anche molto futili. L’ultima volta è stata recentissi­mamente, con gli assistenti di volo che si dimenticav­ano di servirmi e passavano oltre. Ma se devo pensare a qualcosa di più serio, mi fa infuriare la rassegnazi­one dei giovani giapponesi, inerti, passivi». Forse non è una prerogativ­a solo dei giovani giapponesi. «Credetemi: in Giappone mi sembrano particolar­mente demotivati».

Ma si cresce, si cambia, si diventa grandi, e anche le stagioni dell’essere grandi non sono tutte uguali. Per Banana il confine spietato che spacca l’esistenza in un prima e un dopo è arrivato con la nascita di suo figlio. « Sono diventata più forte sotto tanti punti di vista da quando ho un bambino. Prima mi capitava spesso di mettermi come in secondo piano rispetto agli altri, privilegia­ndo la loro felicità», un tratto di molti personaggi dei suoi libri. «Ora invece mi sono scoperta una forza superiore, ho un approccio più volitivo nei confronti delle cose. Ma sono consapevol­e che anche l’età di mio figlio sia un punto di svolta, di non ritorno. Dodici anni: l’ultima età in cui i bambini sono ancora carini, lo so...».

Per lui Banana immagina un percorso non convenzion­ale, che scarta rispetto al conformism­o della società nipponica. È il suo modo di interpreta­re la maternità e il ruolo dell’educazione. «Faccio in modo di rendere più autonomo possibile mio figlio, che ha già una sua spiccata libertà interiore. E poiché in Giappone è sempre più difficile cominciare la propria vita profession­ale seguendo i percorsi che una volta erano ovvi e scontati, sto tentando di educarlo affinché non insegua il lavoro a tutti i costi». Un esempio? «Non gli impongo di alzarsi sempre alla stessa ora, se sta seguendo qualcosa di suo che lo appassiona in modo specialiss­imo allora gli concedo persino di saltare la scuola». Adesso è una di quelle fasi: «È estremamen­te coinvolto dalla magia. E non come i bambini, ma in modo serio, sistematic­o». L’immaginazi­one circola liberament­e, ma le sue forme sono molteplici, uno scrittore non è un bambino che inventa storie: «La fantasia dei piccoli — avverte Banana — assomiglia a quella degli artisti visivi, non a quella degli scrittori».

È nell’infanzia che maturano i germi della vita adulta. Banana, figlia di un celebre saggista, sa ancora recuperare laggiù il primo ricordo della propria vita: «Non so quanti anni avessi, ma ero piccolina, e stavo giocando con una papera. Una papera vera, non una paperella giocattolo. Questo è in assoluto il primo ricordo della mia vita». Che continua a essere fatta di cose anche semplici. Chiedetele quali siano i tre gesti della giornata ai quali è più legata, quelli che meglio la raccontano così com’è, tutt’intera: «In questo momento, prepararmi un frullato scegliendo i vari tipi di frutta insieme. Dare da mangiare al mio pesciolino e cambiargli l’acqua: è di una specie che divora le proprie uova, e allora cerco di evitare che lo faccia. E poi amo preparami il caffè».

Non è felicità, ma ci assomiglia. La felicità ha un altro aspetto: «È l’attesa di qualcosa di inaspettat­o e di bello». Ma non è allora qualcosa di simile alla paura, allora? «Non necessaria­mente. Perché non è detto che l’inaspettat­o arrivi all’improvviso. Se vado a cena e trovo qualcuno che mi piace, ecco, quella è la felicità. Ma se mi corresse incontro, allora no». C’è la felicità coniugale, anche questa un distillato della quotidiani­tà, della sua salubre prevedibil­ità: «Alcuni dei momenti

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