Corriere della Sera

Più chef per tutti L’alta cucina low cost

Piatti gourmet a prezzi accessibil­i. Dal brasiliano Rodrigo Oliveira al cuoco-pop Davide Oldani, il menu democratic­o fa tendenza in tutto il mondo. Ecco chi sono i guru della cena stellata a 50 euro

- Alessandra Dal Monte

Ingredient­i ordinari cucinati in modo straordina­rio». Se volessimo riassumere quello che sta accadendo alla ristorazio­ne globale, le parole dello chef brasiliano Rodrigo Oliveira sarebbero una sintesi perfetta. Cuochi capaci che decidono di lasciare i grandi locali (o di non entrarci proprio) per puntare su una cucina più informale e meno costosa. A base di prodotti eccellenti ma del posto, quindi economici, e di un servizio minimalist­a. In quartieri decentrati e poco modaioli. Per avere costi di gestione inferiori e mettere in tavola piatti abbordabil­i. «L’alta cucina sta diventando democratic­a — spiega il 34enne Oliveira, numero 12 tra i 50 migliori ristoranti dell’America Latina con il suo «Mocotò» e da poco passato a Expo come ospite del padiglione di Identità golose-San Pellegrino —. Se fino a non molto tempo fa gli chef sognavano di aprire grandi ristoranti esclusivi, adesso sognano di fare grande cibo in modo inclusivo».

Lui lo può dire senza paura di essere smentito: nei suoi due bistrot di Vila Madeiros, sobborgo operaio a nord di San Paolo, si mangia con 15-20 euro (al «Mocotò») o con 20-25 (all’«Esquina Mocotò»). E chi sceglie dalla carta è avvertito: con una porzione di «Mocofava» da 9 euro — una zuppa tipica locale a base di midollo, fagioli, salsiccia e manzo essiccato — ci si sazia anche in quattro. «Ho fatto una scelta — chiarisce —. Ho deciso di continuare il lavoro di mio padre, che ha aperto il Mocotò negli anni Settanta pensando di servire la gente del quartiere. Io sono uno chef, ho studiato da chef e in ogni piatto ci metto un’idea. Ma voglio mantenere questo spirito: prezzi contenuti per consentire ai clienti di tornare più volte alla settimana». Quindi: niente aria condiziona­ta, tovaglioli di carta e nessun ingredient­e costoso. Come il filetto. «Del manzo uso tutto il resto, spalla, collo, piede. E poi prodotti brasiliani: cous cous dell’Amazzonia, fagioli, manioca, cuore di palma». Risultato: fuori c’è sempre la fila, i clienti vanno dal ministro all’operaio, i 180 coperti sono pieni anche se non esistono le prenotazio­ni. E le 100 persone dello staff possono frequentar­e corsi di cucina a spese del ristorante. Un’utopia? «No, una gestione oculata. E non sono mica l’unico».

Gli altri li cita lui stesso: «Christian Puglisi a Copenhagen, Inaki Aizpitarte a Parigi». Puglisi, ex sous chef al «Noma», oggi gestisce il «Relae», 45esimo miglior ristorante al mondo secondo il «50 Best Restaurant­s»: si cena a 50 euro. Al «Chateaubri­and» di Aizpitarte, numero 21 in classifica, la degustazio­ne ne costa 70. Sempre a Parigi Bertrand Grébaut fa assaggiare sette portate a 65 euro nel suo «Septime». E anche un ex super chef come Ferran Adrià — per mangiare da lui a «El Bulli» si spendeva 250 euro — oggi sbandiera l’importanza dell’alta cucina democratic­a. Tanto da aver creato un «distretto del cibo informale» a Barcellona insieme al fratello

Rivoluzion­e in padella Anche Ferran Adrià ha creato a Barcellona un «distretto del cibo informale»

Albert. In uno dei sei ristoranti del «Barri», il «Tickets», si pasteggia a suon di tapas con 50 euro. Anche negli Stati Uniti sempre più chef lasciano i locali glamour e vanno a «cucinare per le masse», come ha scritto il magazine Fast Company. Kevin Gillespie è passato dal fondare la più patinata tavola di Atlanta, il «Woodfire Grill» (200 dollari a cena), al «Gunshow», localino «in cui i miei genitori possono venire sempre, perché non è troppo caro». E un cuoco come Sean Brock, osannato per la sua cucina del Sud all’«Husk» (Nashville e Charleston), non prepara piatti a più di 35 dollari.

Insomma, la tendenza è mondiale. Ma a ben guardare l’Italia è stata pioniera: il primo a inventarsi l’alta cucina a prezzi accessibil­i, dodici anni fa, è stato Davide Oldani, che nel suo «D’O» di Cornaredo propone un menu degustazio­ne a 32 euro. La ricetta è sempre la stessa: «Uso solo ingredient­i di stagione ed evito quelle materie prime costose come caviale o astice. Inoltre sto nell’hinterland, dove i costi di gestione sono più bassi». Daniele Usai gli assomiglia: anche lui una stella Michelin e un locale decentrato (al Lido di Ostia) con menu a 50 euro. «Niente ricciola, solo pesce povero. Ma è pescato qui davanti, è squisito», racconta. «Se uno è un bravo cuoco, prepara un grande piatto sia con il nasello che con il rombo», sintetizza Oldani. Allora che senso hanno i ristoranti costosi? «Sono un’altra cosa — replica Usai —. Dietro quei piatti c’è ancora più ricerca. E più spese per i dipendenti, la location e il servizio». Alcuni superchef ci tengono a sottolinea­re la differenza: «Se ti porto una Ferrari non te la posso far pagare come una Cinquecent­o», ha sempre detto Massimo Bottura. «Quella a prezzi accessibil­i non è alta cucina — aggiunge Carlo Cracco —. Ma di certo è ottima: rispetto a un tempo c’è una grande attenzione per la qualità. Le due categorie convivrann­o: nei grandi ristoranti si formeranno i giovani chef, che poi apriranno tavole più informali».

C’è chi dice no Carlo Cracco: «Proposte di qualità, ma i grandi ristoranti sono un’altra cosa»

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