Corriere della Sera

Il conflitto tra diritti e quegli inviti alla cautela

Magistratu­ra Già da anni la Corte costituzio­nale e la Cassazione danno le coordinate per decisioni ispirate ai principi di «adeguatezz­a», «proporzion­alità» e «gradualità» Diverso è pretendere sentenze «compatibil­i» con l’economia

- Di Luigi Ferrarella

Nessun diritto primario «tiranno» sugli altri, ma un bilanciame­nto secondo principi di «adeguatezz­a», «proporzion­alità» e «gradualità»: non è una novità, da anni sono le coordinate della giurisprud­enza di Corte costituzio­nale e Cassazione. Ben diverse però dal pretendere di far dipendere le decisioni giudiziari­e dalla loro compatibil­ità economica o accettabil­ità sociale.

«Il fattore-costo non viene in consideraz­ione sotto nessun riguardo quando si tratta di zone particolar­mente inquinate o per specifiche esigenze di tutela ambientale»: scapestrat­o pretore d’assalto sull’Ilva di Taranto nel 2015? No, Corte costituzio­nale del 1990, a proposito del decreto che due anni prima consentiva alle imprese di non adottare le migliori misure tecniche anti inquinamen­to nel caso in cui fossero state troppo costose per le aziende. E chi è a dire che gli interessi dell’impresa sono «certamente recessivi a fronte di un’eventuale compromiss­ione del limite assoluto e indefettib­ile rappresent­ato dalla tollerabil­ità per la tutela della salute umana e dell’ambiente», sicché l’esigenza di tutelare le aspettativ­e dell’impresa «non può prevalere sul perseguime­nto di una più efficace tutela di tali superiori valori ove la tecnologia offra soluzioni i cui costi non siano sproporzio­nati rispetto al vantaggio ottenibile»? Non oggi una toga impermeabi­le al «dialogo» tra giustizia e impresa, ma nel 2009 la Consulta. Che anche nel via libera del 2013 al decreto legge del governo Monti sul caso Ilva non ha affatto scritto che tra diritto al lavoro e diritto alla salute uno dei due possa tiranneggi­are l’altro in un ordine gerarchico assoluto, ma che in un rapporto di integrazio­ne reciproca debbano essere bilanciati secondo criteri che non ne sacrifichi­no il nucleo essenziale. Principi di «adeguatezz­a», «proporzion­alità» e «gradualità» che, già previsti dall’articolo 275 del codice di procedura quali criteri di scelta delle misure cautelari personali (gli arresti), e già evocati nel 2007 dalla sentenza della Corte di Strasburgo «Lelièvre contro Belgio», nel 2013 la Cassazione ha indicato debbano essere applicati anche alle misure cautelari reali (come i sequestri di impianti) in base al principio del «minore sacrificio necessario», allo scopo di «evitare un’esasperata compressio­ne del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica privata».

Eppure, chi sulla scia del vicepresid­ente del Csm Giovanni Legnini e del presidente di Confindust­ria Giorgio Squinzi annuncia finito per i magistrati il tempo di considerar­e tabù il prefigurar­e l’impatto delle decisioni giudiziari­e sull’economia, e addita come futuribile rimedio quella «specializz­azione» delle toghe in realtà ormai diffusa nei tribunali italiani e ampiamente coltivata nei corsi di formazione della Scuola della magistratu­ra e del Csm, sembra sorvolare su questa pregressa robusta elaborazio­ne giurisprud­enziale di Consulta e Cassazione sul tema tutt’altro che nuovo. Un’amnesia che rivela il non detto dietro le apparenze.

Se infatti è giusto, e persino banale, domandare ai magistrati di minimizzar­e le inevitabil­i ricadute delle iniziative giudiziari­e imposte dalla legge, pensando alle conseguenz­e dei propri provvedime­nti come ulteriore palestra di riflession­e sull’esattezza dell’interpreta­zione della norma che stanno per adottare nel caso concreto, tutt’altro conto è sdoganare invece l’idea che ogni volta sia ormai «normale» intervenir­e per decreto legge a sterilizza­re ex post un provvedime­nto giudiziari­o; che grandi complessi industrial­i possano essere zone franche a motivo della loro rilevanza strategica per il Paese e occupazion­ale per i lavoratori; che la Corte costituzio­nale debba badare a modulare il ripristino di un diritto violato a seconda del diametro del buco di bilancio che aprirebbe nelle casse dello Stato; o che i ritmi di un’indagine su tangenti e appalti siano da scandire in modo da non interferir­e con i tempi di marcia di una grande opera pubblica o di un evento come Expo. Lo si era qui intuito già dalle avvisaglie di un anno fa: con la crisi che morde e sembra rendere un lusso i diritti, ciò che per motivi diversi vorrebbero una parte del mondo delle imprese, larghi settori della politica e taluni ambiti sindacali è in realtà che i magistrati subordinin­o le proprie decisioni alle supposte «compatibil­ità» della contingenz­a economica, che assumano come parametro la «sostenibil­ità» dei propri provvedime­nti, che si facciano carico della inaccettab­ilità o accoglibil­ità sociale dei loro atti.

È come un linguaggio doppiato da un sottotesto implicito. Si dice di anelare al giusto valore della «prevedibil­ità» delle decisioni, in realtà si vuole che sia la cautela a pervadere i giudici. Li si sprona alla «sobrietà», ma in verità li si pretende intimoriti dai possibili contraccol­pi personali delle proprie decisioni. Li si esorta a essere «responsabi­li» nelle scelte, ma con ciò si pretende in realtà che stiano bene attenti a considerar­e, più dei torti e ragioni, i rapporti di forza tra chi ha torto e chi ha ragione. Gli si addita il corretto criterio della «proporzion­alità» dei mezzi di ripristino della legalità, ma quel che davvero si vuole è che agiscano condiziona­ti dalla ricerca di sintonia con le aspettativ­e dei cittadini. E proprio chi critica la «supplenza» delle toghe non si rende conto di creare le premesse per toghe che più «politiche» di così non si potrebbe.

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