Cacciati dal quartiere, portati in caserma Poi i tafferugli e l’assalto alla Prefettura
«Sgombero immediato» dopo la rivolta di Quinto. La contestazione dei centri sociali
Cacciati da Quinto dai residenti in rivolta, affamati e stremati e con la faccia di chi non sa esattamente cosa stia succedendo, i 101 profughi provenienti dall’Africa nera e dall’Asia indiana e bengalese sono stati ricondotti su un paio di pullman e trasferiti nella vicina caserma «Serena» di Casier, un tempo dell’esercito. «Sgombero immediato», ha disposto il prefetto di Treviso dopo i fuochi della notte precedente e la vibrante ordinanza del sindaco leghista di Quinto Mauro Dal Zilio che aveva vietato la permanenza «per ragioni di salubrità e sicurezza». Ad accoglierli, a Casier, hanno trovato solo un’accigliata signora di nome Marisa: «Immaginavo che sarebbero finiti qui e questa cosa non va bene. Adesso la facciamo noi la battaglia di Quinto».
Protesta solitaria, ma per una semplice ragione: la notizia del trasloco non era stata ancora diffusa. Presto infatti sono arrivati alcuni compaesani e fra questi l’amministratore del condominio confinante con la caserma, Michele Denino: «Sistemeremo il muro che ci separa da loro». Le voci si sono in breve moltiplicate, sulla falsariga di quelle di Quinto: «Ne abbiamo già 20 qui a Casier». «Ci fanno paura perché si muovono di notte, a gruppi». «Devono andarsene».
Il sindaco, Miriam Giuriati del Pd, ha invitato la cittadinanza alla «responsabilità e a evitare un nuovo caso Quinto». Gli animi erano comunque inquieti. Insomma, la «carica ai 101» è proseguita e sembra non esserci pace per questi giovani palleggiati da un comune all’altro, da una rivolta all’altra, da un centro di accoglienza a una palazzina di paese a una caserma di periferia. La loro storia è la storia di un fenomeno che sembra crescere in modo incontrollabile. Perché ci sono i fuochi di Quinto, ma ci sono anche i focolai di Casier, di Vittorio Veneto, di Montebelluna, di Teolo e chissà domani di quale paese.
«Per i veri profughi ci vogliono campi in Africa, intanto questi li abbiamo traslocati», diceva ieri il governatore Luca Zaia, applaudito dai residenti. «Faccia il governatore, non l’attivista di partito», l’aveva ripreso Avvenire, il quotidiano dei vescovi. «Fomentatore», l’aveva bollato Alessandra Moretti. E mentre i paesi della Marca s’infiammavano, nel centro di Treviso andava in scena un altro assedio. Quello al prefetto Maria Augusta Marrosu, rea di aver deciso troppi trasferimenti e troppo sbagliati. Sotto le sue finestre, agitati e urlanti, una sessantina di ragazzi arrivati dal centri sociali del Nord Est che chiedevano con forza le sue dimissioni. Paradossalmente, nel pretendere l’allontanamento di Marrosu, questi giovani di sinistra volevano le stesse cose dei più maturi corregionali di destra, dai leghisti a Forza Nuova che avevano appoggiato la protesta di Quinto. Ma per motivi opposti: i primi perché non farebbe abbastanza per i profughi, i secondi perché farebbe fin troppo. Insomma, per il prefetto non è stata una bella giornata. Tafferugli, scontri, minacce. Bilancio: 37 fermi (32 rilasciati in serata e 5 arresti) e 28 denunce.
Poi c’erano loro, i profughi, che s’interrogavano sul perché di tanto movimento. Siamo andati a trovarli prima del trasloco, in uno degli appartamenti di Quinto. Qui c’erano Jashi, Geas, Ahmed, Hassam e altri dieci che avevano appena la forza di scriverci i loro nomi. « I’m hungry ». « I’m tired ». « We want to stay in Italy ». Hanno fame, hanno sete, vogliono rimanere in Italia, dicevano in un inglese stentato. Arrivano tutti dal Bangladesh e la loro odissea non è ancora finita.
Il governatore Zaia: per i veri profughi ci vogliono campi in Africa, intanto questi li abbiamo traslocati