L’altra faccia di Mohammad «La vita è corta e amara»
Un tranquillo ingegnere in jeans catturato dal verbo estremista
La vita del killer di Chattanooga è stata «breve», ma non sempre «amara» come lui stesso ha scritto sul suo blog, pochi giorni prima di seminare la morte tra i suoi coetanei, giovani con la divisa dei marines.
Anzi per lungo tempo, ascoltando le testimonianze di chi lo ha conosciuto, l’esistenza di Mohammad Youssef Abdulazeez è fluita lenta e tranquilla, in sintonia con i ritmi del Tennessee. La sua terra, la sua casa, da quando ci è arrivato bambino a 5 anni, nel 1996, con la sua famiglia. Il padre trova lavoro nel Dipartimento dei lavori pubblici locali. Sono di origine giordana e hanno vissuto per un certo periodo in Kuwait. Dopo la prima guerra del Golfo decide di trasferirsi negli Usa. Con la moglie e tre figli, Mohammad e le due sorelle, si sistema in una casa del Colonial Shores, a Hixson, un sobborgo residenziale di Chattanooga, lungo il fiume Tennessee. Viene anche sospettato di legami con gruppi terroristici. Ma le accuse non hanno avuto seguito.
In breve tempo gli Abdulazeez mantengono la fede musulmana, adattandosi però senza problemi alla placidi abitudini del ceto medio del Sud. Mohammad cresce giocando in cortile al Whiffle ball, il baseball dei bambini, e poi frequentando la Red Bank High School. Le due sorelle si coprono la testa con il velo. Lui è sempre in jeans, cappellino e maglietta. Spiritoso, divertente, addirittura «l’amico più divertente» ricorda oggi un suo vecchio compagno di scuola e aggiunge: «Una persona per bene e onesta, non avrei mai pensato…», eccetera. Un ragazzo americano con il cognome musulmano («Il mio nome allarma la sicurezza nazionale, e il vostro?», scrive nell’annuario del liceo). Fin qui tutto secondo gli standard, comprese quelle bravate da cui è passato, per sua stessa ammissione, anche il presidente Barack Obama. Qualche sgommata sulla berlina di famiglia, una Toyota Camry, a cui aveva tolto i copri cerchioni. Pochi mesi fa, ad aprile, Mohammad viene arrestato sulle strade cittadine per aver guidato con la febbre. D’accordo, fedina penale macchiata, ma sembra finita lì.
Nel 2012 il giovane si laurea in ingegneria elettronica all’Università di Tennessee-Chattanooga e sembra pronto a entrare nella comunità degli adulti. Per l’occasione sua madre gli scatta la foto ricordo, con il tocco e la toga, e la pubblica su Facebook.
Ma la promessa di quel sorriso da neo laureato, invece, si è come disperso. Il suo percorso nel mondo del lavoro è stato pressoché inesistente. Per un anno, dal 2009 al 2010, viene impiegato dalla Tennessee Valley Authority, un’azienda federale che fornisce energia elettrica. Poi basta.
Negli ultimi mesi Mohammad trascura gli allenamenti di arti marziali. Si fa crescere la barba e si fa vedere sempre più spesso nella moschea dell’Islamic Society of Greater Chattanooga. Un luogo di preghiera e un centro culturale moderato: uno dei fondatori, Azhar Sheikh, è stato tra i primi a portare le condoglianze ai marines. Sheikh, sconcertato, ha anche dichiarato che Mohammad non aveva mai mostrato « segni di estremismo » . La chiave, quella che stanno cercando gli investigatori della Fbi, probabilmente è nascosta nell’intrico dei messaggi sui social network e nel lungo viaggio in Giordania, sette mesi nel 2014.
Il 13 luglio, tre giorni prima della strage, il futuro omicida scrive due commenti sulle prove cui è chiamato il musulmano devoto. Alcune frasi, lette oggi, sono inquietanti: «La vita è corta e amara. I musulmani non dovrebbero farsi sfuggire l’opportunità di sottomettersi ad Allah, quando si presenta. La vita non è altro che una prova della nostra fede e della nostra pazienza». E ancora: «Noi chiediamo ad Allah…di darci piena conoscenza del messaggio dell’Islam e la forza di vivere secondo questa conoscenza. Chiediamo di conoscere quale ruolo dobbiamo avere per edificare l’Islam nel mondo».
La tragica risposta che Mohammad ha pensato di ricevere potrebbe averlo spinto a procurarsi un fucile mitragliatore per togliere la vita agli altri e chiudere anche la propria. «Breve e amara».
Arti marziali Negli ultimi tempi trascurava gli allenamenti e andava spesso in moschea