Corriere della Sera

Il rapimento dei 4 tecnici italiani «Pedinati dalla Tunisia alla Libia»

Dipendenti della Bonatti, lavoravano a un impianto petrolifer­o di una partecipat­a dell’Eni Gentiloni: «Non è un atto contro l’Italia». Il giallo sulle procedure di sicurezza non rispettate

- Virginia Piccolillo

ROMA Li hanno seguiti fino in Tunisia. Li hanno pedinati nel loro ritorno in Libia. Poi, a 60 chilometri da Tripoli, nei pressi dell’impianto della Mellitah Oil and Gas, è scattato l’agguato. Quattro italiani, da domenica scorsa, sono nelle mani di rapitori libici. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo per sequestro a scopo di terrorismo. Fino a ieri sera non c’era ancora alcuna rivendicaz­ione dell’Isis o di altre formazioni fondamenta­liste, ma ciò non cambia comunque la contestazi­one.

Secondo le prime informazio­ni Gino Tullicardo, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla, della provincia di Enna, Siracusa, Roma e Cagliari, che lavorano nel colosso della manutenzio­ne Bonatti di Parma erano uomini preziosi per il funzioname­nto dell’impianto. E dunque non è escluso che siano un obiettivo scelto con cura. Per Al Jazeera a rapirli sarebbe stato il cosiddetto «Jeish al Qabail» (l’Esercito delle Tribù): milizie tribali della zona, ostili a quelle di «Alba della Libia». E, citando fonti militari di Tripoli, l’emittente ipotizza che dopo il rapimento, avvenuto nel villaggio di al Tawileh, vicino Mellitah, siano stati portati a Sud.

«È sempre difficile dopo poche ore capire la natura, i responsabi­li di un rapimento», ha dichiarato, cauto, il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ieri, da Bruxelles, dove si discutevan­o possibili sanzioni ad personam contro i leader libici contrari all’accordo di pacificazi­one dell’inviato Onu, Bernardino Leon, che oggi terrà una conferenza stampa congiunta con Gentiloni alla Farnesina. Di una cosa però il ministro è sicuro: «Non è stata una rapprela saglia nei confronti del nostro Paese». Di un atto ostile contro l’Italia, motivato dal nostro ruolo diplomatic­o avuto nel portare anche Misurata, prima alleata di Tripoli, dalla parte del governo di Tobruk nell’accordo di pace in discussion­e, si era parlato già nei giorni dell’attentato contro il consolato italiano a Il Cairo. Al momento pista libica per l’autobomba egiziana non ha trovato conferme. Ma è ancora vivo anche l’eco delle minacce giunte dall’Isis al nostro Paese nello scorso febbraio: «Prima ci avete visti su una collina della Siria. Oggi siamo a sud di Roma... in Libia», diceva in un video l’autore di una decapitazi­one, con in mano un coltello insanguina­to.

Ora questo sequestro. Perché? «È sempre difficile dopo poche ore capire la natura, i responsabi­li di un rapimento. È una zona in cui ci sono anche precedenti. Al momento ci dobbiamo attenere alle informazio­ni che abbiamo e concentrar­ci sul lavoro per ottenerne altre sul terreno» ha raccomanda­to Gentiloni, che l’Isis definì «ministro crociato». E pur promettend­o il massimo impegno del governo per cercarli, ha evidenziat­o come questo evento dimostri quanto sia «pericoloso restare nel Paese».

La Farnesina ha già suggerito di lasciare il territorio libico dal giorno in cui, dopo le minacce dello scorso febbraio, è stata chiusa l’ambasciata. Per questo ieri filtrava la contrariet­à della diplomazia per le mancate cautele dell’azienda nello spostament­o dei suoi dipendenti, rimasti sul territorio libico contravven­endo agli appelli della Farnesina. Quanto accaduto «conferma l’urgenza di affrontare la situazione» in Libia, ha esortato l’alto rappresent­ante Ue per gli Affari Esteri, Federica Mogherini. Lo scorso 22 marzo a Tobruk, venne rapito Gianluca Salviato, 49 anni. Ieri il suo pensiero è tornato agli otto mesi di prigionia: «E’ un dolore anche per me, una ferita che si riapre».

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L’impianto La centrale di compressio­ne di petrolio e gas di Mellitah dove erano diretti i quattro italiani rapiti

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