Corriere della Sera

L’ipotesi dei banditi, le voci sulle milizie «laiche» I misteri di un sequestro

- Lorenzo Cremonesi

Chi ha rapito gli italiani? E per quale motivo? L’ipotesi che va per la maggiore tra gli osservator­i è quella del sequestro a scopo di estorsione. Aggravato, ingigantit­o e soprattutt­o complicato dal fatto che la Libia resta un Paese profondame­nte diviso, lacerato da lotte interne che sono prima di tutto tribali, non hanno nulla a che fare con l’Islam e la guerra di religione, e tuttavia questi fattori nella confusione generale possono assumere valenze importanti. «Ai banditi può fare comodo ammantarsi di una patina ideologica. Può servire a fare paura. E anche per darsi un’aureola di santità che in fondo non hanno per nulla», dice Marco Vignali, uno dei più noti tra i tanti imprendito­ri italiani che da molti anni operavano nel Paese, ma che ultimament­e proprio l’aggravarsi della situazione ha costretto a tornare in Italia.

Le ragioni per cui sono stati rapiti ancora degli italiani paiono evidenti. Sono tra i pochi occidental­i ancora a operare nel Paese in modo strutturat­o, anche se molto più defilati. L’Eni e le società italiane di sostegno come la Bonatti non hanno eguali per volume di lavoro e manodopera impiegata. Inoltre gli italiani pagano i riscatti. A differenza di americani e inglesi, che in genere rendono le cose molto più difficili. Il terzo motivo è ancora più importante: l’Italia ha un rapporto storico con la Libia, risale a prima dell’invasione del 1911. Non a caso a ogni crisi la sua popolazion­e guarda all’Italia. «Gli italiani non sono altro che libici che sanno nuotare», dicevano scherzosi i giovani rivoluzion­ari che scendevano in piazza a dimostrare contro Gheddafi nel febbraio del 2011. Guarda caso, in quello stesso periodo, anche i fedelissim­i del Colonnello a Tripoli si rivolgevan­o con lo stesso fervore al governo Berlusconi affinché non intervenis­se con la Nato. «Roma non ci può tradire come Londra e Parigi», gridavano.

Tutto questo per sostenere che il rapimento dei quattro italiani (come del resto i precedenti negli ultimi anni), pur se con una probabile matrice criminale prevalente, va inquadrato nel contesto politico locale. Diciamolo chiarament­e: la Libia non c’è più. Il Paese è frazionato in una miriade di entità particolar­i in costante lotta tra loro per l’egemonia.

Per comodità noi giornalist­i e commentato­ri riassumiam­o che dall’anno scorso è diviso tra i «laici» che fanno capo al parlamento di Tobruk e gli islamici legati a Tripoli. Ma la realtà è molto più variegata, sfuggente, fuori controllo. E comunque ora non è strano che le due parti principali si rimpallino le responsabi­lità del sequestro.

Persino la television­e del Qatar, Al Jazeera, notoriamen­te legata al campo islamico, ieri ha fatto eco a queste polemiche riportando che gli italiani potrebbero essere nelle mani del «Jesh al Qabali», traducibil­e come «L’esercito delle Tribù», le milizie locali composte anche dai berberi delle montagne e i commercian­ti di Zuara, la città portuale prossima al terminale di Mellitah dove si stavano recando i quattro in arrivo dal confine tunisino. La ragione? Fare pressione sull’Italia in vista di un eventuale accordo per la formazione di un governo di unità nazionale mediato dall’inviato speciale delle Nazioni Unite, Bernardino León. E’ una tesi come tante altre. Ma forse più che spiegare complica la matassa.

L’Italia infatti ultimament­e si è espressa più favorevolm­ente del solito per il governo di Tobruk, che a sua volta è molto vicino alla milizia berbera di Zintan. Il problema è che da almeno due anni Zuara e Zintan sono in contrasto. E con i loro vari gruppi armati l’Eni e le sue partecipat­e — come ha scritto in un reportage il Wall Street Journal — hanno stretto pragmatica­mente singoli accordi per garantirsi l’integrità degli impianti e del personale. La logica è semplice: si pagano i capi tribali, come quelli delle tribù amazigh, che in cambio mandano i loro giovani a lavorare e fare la guardia. Il blocco degli impianti diventa un danno anche per loro. Non sarebbe strano che siano stati mobilitati i «signorotti» della regione per individuar­e i rapitori.

Su tutto ciò incombe lo spettro dell’Isis. Da oltre un anno i suoi tagliagole si sono progressiv­amente impadronit­i di pezzi sempre più ampi del Paese. Hanno cominciato dal deserto, la Cirenaica e Derna (dove ultimament­e sono stati scacciati da milizie filo Al Qaeda), quindi sono entrati a Sirte, controllan­o il 60 per cento di Bengasi e mirano alle periferie di Tripoli. Il rischio più grave è che cerchino di prendere gli italiani, potrebbero «comprarli» da chi li detiene. Anche per questo motivo occorre fare in fretta. Il caos aiuta il terrorismo e confonde le speranze per un governo di unità nazionale. I rapitori lo sanno e lo useranno come argomento per alzare il prezzo.

Le ragioni Gli italiani sono tra i pochi occidental­i a operare ancora in Libia. E pagano i riscatti

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