Corriere della Sera

LA VIA GIUSTA PER TAGLIARE LE TASSE

- Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

In un decennio la pressione fiscale (imposte dirette e indirette, contributi sociali e imposte sui redditi da capitale) è salita di quattro punti e mezzo, dal 39 per cento del reddito nazionale nel 2005 al 43,5 l’anno scorso. Un aumento che tuttavia non è riuscito a fermare la crescita del debito, perché nello stesso periodo la spesa pubblica al netto degli interessi è aumentata di altrettant­o. Quest’anno, per la prima volta, la pressione fiscale è un po’ scesa (di circa mezzo punto) grazie alla parziale detassazio­ne del lavoro, cioè agli 80 euro (tutti i dati provengono dalle audizioni della Banca d’Italia in Parlamento). Quanto accaduto con gli 80 euro e il recente annuncio del presidente del Consiglio di un’ulteriore significat­iva riduzione delle tasse sono fatti certamente positivi: la pressione fiscale va abbassata e finalmente si è cominciato. Ma il modo in cui si intende farlo solleva qualche dubbio. Sembra infatti dettato dal calendario elettorale e dal dibattito politico più che da un preciso disegno di riforma del nostro sistema fiscale. Pare cioè che il governo si muova in base alle esigenze politiche del momento: elezioni e baratti con l’opposizion­e. Le elezioni europee lo scorso anno per gli 80 euro. Oggi, nel caso della proposta di abolire la tassa sulla prima casa, l’ostinata opposizion­e della destra a questa imposta.

Ciò di cui abbiamo bisogno è un fisco semplifica­to che, oltre a ridurne il più possibile il peso, sostenga la crescita, sia equo (nel senso che entro certi limiti i ricchi paghino più tasse dei poveri) e renda il più difficile possibile l’evasione e l’elusione.

Consideria­mo per esempio l’imposta sulla casa: dal punto di vista della crescita tassare le abitazioni ha numerosi vantaggi rispetto a imposte sul lavoro. Non scoraggia la partecipaz­ione al mercato del lavoro (per esempio quello femminile), non aumenta direttamen­te o indirettam­ente i costi delle imprese, quindi non riduce la domanda di impiego, non si traduce in inflazione come invece farebbe un aumento dell’Iva. Certo, riduce il reddito dei cittadini. Ma questo lo fanno anche le altre tasse. Dal punto di vista dell’equità, però, sia l’Imu che la Tasi, così come sono state disegnate, hanno pessime caratteris­tiche. A pagina 102-103 della Relazione della Banca d’Italia per il 2014 viene riassunta un’interessan­te analisi (di non facile lettura) degli effetti redistribu­tivi delle due imposte. Il risultato è scoraggian­te: entrambe, e soprattutt­o la Tasi, sono costruite in modo tale che i meno abbienti paghino proporzion­almente più dei ricchi — per effetto dell’interazion­e fra aliquote applicate ai valori catastali e minimi detraibili. Nelle stesse pagine gli economisti della Banca d’Italia propongono combinazio­ni alternativ­e di aliquote e minimi detraibili che avrebbero effetti meno indesidera­bili sulla distribuzi­one dell’onere delle imposte sulle abitazioni.

La conclusion­e quindi è che la tassa sulla casa è una «buona» tassa (parliamoci chiaro, nessuna tassa può essere disegnata in modo perfetto) nel senso che ostacola la crescita meno di altre. Ma va costruita bene per evitare effetti redistribu­tivi perversi. Introdurla, poi cancellarl­a e cambiarle nome come è stato fatto negli ultimi anni, crea confusione ed incertezza per i cittadini. È un gioco politico assurdo.

Ma quello di Imu e Tasi è solo uno dei casi. Si era parlato, ad esempio, ma è rimasto un progetto, di agevolazio­ni fiscali per incentivar­e l’occupazion­e femminile, che è molto bassa in Italia, introducen­do aliquote minori per donne con figli che lavorano, un esempio di sostegno alla crescita e all’equità.

Rimane poi il problema endemico dell’evasione. Alcune imposte sono più facilmente eludibili di altre. Più complicato è un sistema fiscale, più facile sarà nascondere reddito nelle sue pieghe oscure: ecco perché la semplifica­zione può aiutare l’equità. La tassa sulla casa, per esempio, è difficilme­nte eludibile: è complicato nascondere le case ed altrettant­o spostarle all’estero (a meno di emigrare).

Insomma, riformare un sistema fiscale (riducendon­e il peso) non è cosa da poco. Varrebbe la pena pensarci bene. Un modo per farlo potrebbe essere incaricare una commission­e di esperti indipenden­ti, come accadde nel 1972 con la commission­e ministeria­le Cosciani-Visentini. Propose il Testo Unico delle Imposte dirette poi adottato con la legge del 1973, che introdusse l’Irpef e il sostituto d’imposta per i redditi da lavoro dipendente, misure che resero più difficile evadere la tassazione dei redditi da lavoro. Seguendo quell’esempio si dovrebbe assegnare ad una nuova commission­e il compito di ridurre il peso fiscale ridisegnan­dolo con tre obiettivi: semplicità, crescita, equità. La commission­e potrebbe proporre vari scenari alternativ­i internamen­te coerenti. La scelta di quale adottare sarebbe poi della politica, possibilme­nte senza rovinarne la coerenza con pasticci ad hoc.

Ridurre (e di molto) il peso delle imposte va fatto, ma nel quadro di un progetto ben congegnato, non a colpi di legislazio­ne dettati dalle vicende politiche del momento e dal calendario elettorale.

Modello Si può assegnare a una commission­e il compito di studiare le formule migliori

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