SE TORNA LA LEGGE DI FERRO NELLA TUNISIA SOTT’ASSEDIO
La legge di ferro contro il terrorismo adottata ieri dal Parlamento tunisino sembra più una mossa disperata che una prova di forza. Tra i provvedimenti fa discutere l’introduzione della pena di morte per reati quali «l’omicidio dei cittadini stranieri». Dal punto di vista strettamente giuridico siamo di fronte a una misura ridondante poiché la pena capitale è già prevista dal codice tunisino per 21 delitti e tra questi c’è sicuramente l’assassinio. Dopodiché l’ultima esecuzione risale al 1991 e persino il presidente autocrate Ben Ali non ne ha fatto ricorso per mantenere l’ordine pubblico.
Il provvedimento è stato votato all’unanimità, fatte salve 10 astensioni, da tutti i partiti. Dalla formazione secolarista Nidaa Tounes, che guida il governo, al movimento di ispirazione islamica Ennahda che ha un rappresentante nell’esecutivo. È il segno che il ceto politico avverte come imminente il pericolo di essere travolto dalla jihad, locale o di importazione che sia.
Nell’ultimo mese, dopo il massacro dei turisti a Sousse del 26 giugno, il premier Habib Essid ha subito cambiato il responsabile della commissione incaricata di monitorare i luoghi di culto. Al posto dell’Imam moderato Amor Mighri è arrivato Othman Battikh, gran Muftì già al servizio del regime di Ben Ali. Nel giro di poche settimane sono state chiuse 83 moschee, senza che ci fosse almeno l’indizio di un collegamento con il terrorismo islamista.
Ora il punto è che la Tunisia può cedere al richiamo del recente passato; oppure può gestire la legge emergenziale senza rinunciare alle libertà fondamentali. Ma oggi, va detto con chiarezza, il Paese faro della primavera araba non ha i mezzi per battere i suoi nemici mortali. Polizia efficace, intelligence, strumenti per il controllo del territorio eccetera: manca tutto. Senza il massiccio aiuto degli occidentali, la legge approvata ieri servirà solo a incoraggiare i nostalgici della dittatura.