Corriere della Sera

Quella mina bancaria sulla strada della Grecia

- di Federico Fubini

Dopo cinque settimane di chiusura, ieri alla fine della prima giornata di scambi in Borsa i quattro principali istituti bancari ellenici erano giù in media del 29,92%. È stato un crollo quasi doppio rispetto a quello del listino generale — che ha chiuso a -16,2% —, in buona parte perché gli investitor­i si rendono conto che proprio le banche oggi rappresent­ano l’area di incertezza più grave in un Paese che da anni naviga al buio. Facile prevedere tra non molto uno scontro a porte chiuse fra Paesi creditori, perché qualunque decisione sulle banche di Atene è destinata a trasformar­si in un precedente carico di implicazio­ni per tutti.

L’indice delle banche ieri alla Borsa di Atene ha chiuso appena dello 0,08% sopra ai peggiori ribassi consentiti, e in questo sottile diaframma c’è tutta la fragilità di un ingranaggi­o decisivo per il futuro della Grecia. Dopo cinque settimane di chiusura, alla fine della prima giornata di scambi in Borsa i quattro principali istituti erano giù in media del 29,92%. È stato un crollo quasi doppio rispetto a quello del listino generale, in buona parte perché gli investitor­i si rendono conto che proprio le banche oggi rappresent­ano l’area di incertezza più grave in un Paese che da anni naviga al buio.

Sulle banche elleniche il confronto in Europa è già iniziato, e nelle prossime due settimane vivrà i suoi momenti decisivi. Non sarà facile: ancora una volta si sta riaprendo una linea di frattura fra l’intransige­nza dei negoziator­i tedeschi e le idee di chi, in Italia o in Francia, vuole evitare di destabiliz­zare la Grecia ancora di più. Facile prevedere tra non molto uno scontro a porte chiuse fra Paesi creditori, perché qualunque decisione sulle banche di Atene è destinata a trasformar­si in un precedente carico di implicazio­ni per tutti. In gioco c’è la possibilit­à che non solo gli azionisti o gli obbligazio­nisti, ma anche certi depositant­i delle banche greche debbano subire perdite sui propri risparmi in cambio di una ricapitali­zzazione degli istituti da parte del resto dell’area euro. Ormai si tratta di decidere quando, con quanto denaro e in cambio di quali sacrifici, i governi di Eurolandia accetteran­no di sostenere il sistema del credito nel Paese più debole dell’area. Nessuno ha la risposta, perché nessuno oggi conosce le reali condizioni di National Bank of Greece, Piraeus Bank, Alpha Bank e Eurobank. Nell’autunno scorso, tutte e quattro avevano passato gli esami della Banca centrale europea relativi alla solidità del patrimonio e alla capacità di resistenza agli choc. Da allora però sono state tutte sottoposte a una serie di scosse telluriche di intensità crescente. Da novembre hanno perso circa 50 miliardi di depositi - quasi un terzo del totale – ritirati dalle famiglie nel timore di una conversion­e in blocco degli euro in svalutatis­sime dracme.

Quindi le imprese, colpite dal blocco dei pagamenti da parte dello Stato, hanno iniziato a non rimborsare più i prestiti ricevuti dagli sportelli. Stime informali delle autorità di Atene a fine giugno indicavano che gli arretrati sui rimborsi erano arrivati in media a circa il 40% dell’intero portafogli­o dei crediti bancari. E da allora la situazione non ha fatto che peggiorare. Certamente alcune delle grandi banche sono al limite dell’insolvenza, il loro capitale eroso dalla recessione sempre più grave. Quasi nessuno è in grado di dare o ricevere credito, o di programmar­e ed eseguire un investimen­to.

All’Europa ormai non resta che stimare i buchi e le esigenze di nuovo capitale dei quattro principali istituti di Atene. Se ne occuperà la Banca centrale europea in autunno, quindi si fisserà la somma che il fondo salvataggi europeo (Esm) dovrà mettere a disposizio­ne. I documenti ufficiali indicano già che l’iniezione di finanza fresca può arrivare a 25 miliardi di euro, una somma colossale per la Grecia: due volte e mezzo il valore di Borsa delle sue banche ieri sera, quasi il 15% del fatturato dell’intera economia del Paese. Ora l’idea prevalente è di iniettare queste risorse nelle banche direttamen­te come capitale di proprietà del fondo salvataggi europeo, non sotto forma di prestito al governo greco. È probabile che ciò avvenga all’inizio del 2016, dunque si dovrebbe applicare la nuova legislazio­ne europea che prevede perdite a carico di tutti i creditori delle banche salvate da aiuti pubblici. È qui che moltissime piccole e medie imprese greche rischiano di chiudere, perché perderebbe­ro i capitali con cui pagano gli stipendi o la manutenzio­ne degli impianti. Se infatti un primo colpo di forbice a carico azionisti e obbligazio­nisti delle banche non bastasse come sacrificio in vista dell’aiuto di Stato, anche i depositant­i con conti al di sopra dei 100 mila euro dovrebbero pagare. Nella Grecia di oggi, significa falcidiare i conti delle uniche aziende che in qualche modo continuano a esistere.

È qui che lo scontro in Eurolandia è venuto alla luce. I negoziator­i tedeschi insistono per applicare le regole in modo automatico, a costo di mettere in ginocchio ciò che resta della struttura produttiva ellenica. Francesi e italiani puntano invece ad applicare una clausola che salva i depositant­i, se il colpo di falce sui conti bancari minaccia conseguenz­e gravi per l’intera economia.

Così la Grecia, il Paese più estremo, ancora una volta diventa un precedente per il resto d’Europa. Non è andata così in altri casi: la Corte costituzio­nale di Vienna per esempio ha appena decretato che in Austria la legge europea sulle perdite per i creditori delle banche è incostituz­ionale. Così ha salvato gli investitor­i in un piccolo istituto di nome Alpe Adria, con interessi in Baviera. Chissà perché, in quel caso nessuno in Germania ha protestato.

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