Corriere della Sera

IL POSTO DELLE MELE

VAL DI NON: I POMI SI CONSERVANO IN CELLE SCAVATE NELLA ROCCIA (VICINO A DELICATI DATI DIGITALI)

- di Roberta Scorranese rscorranes­e@corriere.it

La folta pelliccia dei meleti carichi ammanta di verde scuro la vallata che prelude all’altopiano della Predaia, avanguardi­a dello spettacolo delle Dolomiti di Brenta. La roccia della miniera di Rio Maggiore in Val di Non, a Mollaro, invita a entrare attraverso una galleria. Nella montagna che un tempo diede riparo alle streghe della valle c’è un buco. Si entra. Si percorrono 300 metri a dieci gradi. Temperatur­a costante. Si arriva alla prima delle 12 celle chiuse, dove si va sotto zero, a meno un grado. C’è poco ossigeno.

Perché qui, in ciascuna cella, ci andranno 900 mila chili di mele: respireran­no meno e dunque, anche grazie al freddo, si conservera­nno più a lungo. Si risparmier­à energia (secondo le previsioni, quasi il 50 per cento rispetto agli attuali parametri che tengono in vita gli impianti di raffreddam­ento tradiziona­li) e non si useranno più i pannelli coibentati, che inquinano quando li si smaltisce. Dietro tutto questo c’è Melinda, il consorzio di frutticult­ori della Val di Non, che ha lanciato il primo impianto di conservazi­one ipogeo della frutta al mondo. Frutto delle ricerche sulla roccia dolomia del professor Andrea Fuganti e messa in pratica dalla Tassullo Materiali, che qui estrae la roccia.

Franco Paoli, direttore di produzione del consorzio, fa strada al freddo. «L’investimen­to è stato di 8 milioni ma i risparmi, se il progetto funziona, nel tempo saranno notevoli. E soprattutt­o inquinerem­o di meno». Ma perché proprio qui? Perché qui 200 milioni di anni fa c’era il mare e le caratteris­tiche minerali della roccia dolomia ne fanno uno dei materiali più resistenti e antisismic­i. Inoltre, fa notare Valentino Dalpiaz, responsabi­le di alcuni stabilimen­ti del consorzio che ha l’unica mela D.o.p. in Italia, «il paesaggio avrà un capannone in meno». E poi c’è l’acqua fossile sotto la roccia, che va a refrigerar­e la cella per essere dopo riutilizza­ta e si sta già pensando di stoccarla per irrigare i meleti in superficie.

Dunque, nella terra delle montagne più belle, il futuro è nelle viscere? Ma le leggende lo avevano già raccontato: una delle più famose inscena, sul lago della Predaia, un gregge di pecore che, una alla volta, si inabissa. Eppure, sotto questa montagna che conserverà una tradizione vecchia di oltre mezzo secolo (la produzione delle mele in Val di Non comincia nel secondo dopoguerra), c’è dell’altro. Proprio di fronte a una delle celle di Melinda, spicca un pannello che annuncia l’apertura di un’altra galleria, quella del Datacenter, un mega computer. In sostanza, l’idea è quella di stoccare, accanto ai pomi, anche i dati racchiusi nei server dei grandi fornitori di servizi digitali. Per esempio, i dati della Pubblica amministra­zione. Perché sembra strano a dirsi, ma i Big Data sono come le mele: hanno bisogno di freddo (i server si surriscald­ano, sprecando enormi quantità di energia) e di protezione (all’esterno sono minac- ciati dai droni, per esempio). Non è un caso che Google abbia uno dei suoi datacenter in Islanda. Devono respirare meno per vivere più a lungo, le ottime Golden e le dolci Renette così come le informazio­ni (su di noi) conservare dai server.

Eccola l’anima nascosta del Trentino, quella che da oggi si mostra a Expo: un carattere sorprenden­te, che, sì, ogni giorno ci regala lo spettacolo dell’Enrosadira facendo arrossire le montagne, ma dall’altra parte ha un cuore antico che batte sottoterra, quasi andasse a richiamare sottovoce le lontanissi­me origini marine in un impeto nostalgico. Addirittur­a, tra i consorzi vinicoli trentini, si sta facendo strada l’idea di conservare il vino in fondo ai laghi, come fanno già in Croazia o persino sul lago d’Iseo.

Ma è passeggian­do tra i meleti dell’altopiano che si capisce questa doppia natura, sospesa tra le alture e gli abissi. Il Trentino ha capito che il passato più prezioso (le mele più buone, curate una ad una) vanno di pari passo con il futuro ancora da immaginare (quello ipogeo dovrebbe diventare uno dei datacenter più grandi d’Europa, capace di mettere al sicuro milioni di tera di dati). Saranno l’uno di fronte all’altro, senza imbarazzi, un po’ come, nella vicina Fondazione Mach, i fasti antichi dell’abbazia-sede dialogano con le tecnologie biologiche più innovative. Non sorprende: in questa terra che ha fatto da ponte tra la Mitteleuro­pa e il Mediterran­eo, hanno convissuto streghe e concili ecumenici, benandanti (congreghe legate a culti pagani) e le radici della Democrazia Cristiana con De Gasperi. Occhi all’insù, ma testa a terra. Anzi, con la curiosità di andare sotto.

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La pancia della roccia Ogni cella del sito ipogeo può contenere 90 vagoni di mele

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