Edipo e Kafka, gita a Tokyo
Il ragazzo in fuga che giace con la madre, lo scarafaggio che diventa Gregor Samsa: discesa nelle visioni di Murakami
Murakami Haruki scrisse nel 2002 Kafka sulla spiaggia, forse la sua opera più significativa (traduzione di Giorgio Amitrano per Einaudi). Intorno ai protagonisti tutte le cose si muovono e si trasformano, e ogni cosa assume almeno un duplice volto e significato. Gli dèi sono estremamente flessibili e versatili: ma non vivono in sé stessi; vivono nella mente mobilissima dei personaggi. Così il libro si esprime in due trame: Murakami non può dire una cosa in una sola maniera; ha bisogno di due linee, inizialmente separate, le quali finiscono per convergere e coincidere in una linea sola.
Il personaggio che appare nelle prime pagine del libro si chiama Tamura Kafka. Egli è il nuovo Edipo: una maledizione lanciata dal padre vuole che egli abbia un destino tragico: il destino per definizione; un giorno ucciderà il padre con le sue mani e giacerà con la madre. «Mio padre — dice Tamura — ripeté che, qualunque cosa avessi fatto; non sarei potuto sfuggire alla profezia. Era come un congegno a orologeria dentro i miei geni». «Se c’era una maledizione, ho deciso di andarci incontro e subirla sino in fondo, come per esaurire al più presto il programma che mi aspettava». Tamura non vuole obbedire a questo destino: anzi non vuole obbedire al destino, nemmeno in modo onirico, uccidendo il padre nei sogni. Sceglie di percorrere un’altra strada: non sa quale, ma un’altra. Eppure qualsiasi strada percorra, per quanto ondeggi e si sposti, non potrà che seguire la strada che la maledizione del padre aveva insinuato nei suoi geni. La storia dei suoi rifiuti e della sua fondamentale obbedienza, la storia degli andirivieni che alla fine obbediscono a una linea, è quella di Kafka sulla spiaggia.
Tamura Kafka fugge di casa a 15 anni, con le mani coperte di sangue. In casa, lascia il cadavere insanguinato del padre, che forse ha ucciso. Le mura della casa sono imbrattate di sangue. Le altre persone della sua esistenza, che diventano i personaggi del libro, lo tengono a distanza: diffidano di lui; lo considerano sgradevole, e a volte lo temono, ma lo lasciano in pace. Tamura trasforma il suo cervello in una spugna: ascolta con attenzione tutto ciò che viene detto in classe e poi in strada, e se ne riempie la testa. Tenta di evitare che il viso tradisca le sue emozioni, si odia: «La mia faccia, le mie mani, il mio sangue, i miei geni, insomma tutto quello che mi è stato trasmesso dai miei, mi fa orrore. Se potessi, vorrei buttare via tutto».
Sta per entrare nel mondo spietato degli adulti, dove è costretto a sopravvivere da solo. Deve dunque diventare più duro e inflessibile di chiunque altro. Ma, al tempo stesso, non è legato a niente, nemmeno a sé e al suo viso: è libero al cento per cento. Getta via i sentimenti e le sensazioni che lo occupano, fino a diventare vuoto. «Vi è un grande spazio bianco dentro di me, che continua a crescere, e che a poco a poco divorerà anche l’ultima sostanza che mi è rimasta». Nel corso del romanzo, questo vuoto si allarga e s’impossessa di lui. Quando lo avrà riempito completamente, così da essere completamente libero, Tamura tornerà a Tokyo, andrà dalla polizia che lo ricerca, confessando quello che forse è il suo delitto, e tornerà a scuola. «Non si può fuggire all’infinito».
La tappa fondamentale della sua liberazione è la biblioteca Komura, dove egli finisce per abitare e per vivere. Prende un volume delle Mille e una notte nella traduzione di Burton. Siede su un divano e si guarda intorno: si accorge che la sala è il luogo che stava cercando da tempo; un posto nascosto in una nicchia del mondo. Ama perdutamente le Mille e una notte. I meravigliosi racconti sono pieni di una libertà e di una forza vitale, che non possono venire racchiuse nei confini del senso comune, e afferrano il suo cuore senza mollare la presa. Mentre legge, la realtà che lo circonda sparisce progressivamente, come in una dissolvenza cinematografica. Resta solo, immergendosi lentamente tra le pagine del libro. Questa è la sensazione che più ama in assoluto.
Alla biblioteca Komura, il ragazzo Tamura conosce la signora Saeki, che sovraintende al mondo dei libri. Essa canta e suona al pianoforte Kafka sulla spiaggia, la canzone che dà il titolo al libro. La prima cosa che colpisce è la bellezza della melodia: la voce della signora Saeki si fonde con la musica nel modo più armonioso; il talento allo stato puro coincide in modo miracoloso con la più disarmante innocenza. Nella canzone una timida diciannovenne di provincia scrive dei versi ispirandosi al suo ragazzo lontano: canta la canzone che ha creato, senza la minima pretesa; non l’ha scritta per farla sentire a qualcuno, ma solo per riscaldare il proprio cuo-