Corriere della Sera

Edipo e Kafka, gita a Tokyo

Il ragazzo in fuga che giace con la madre, lo scarafaggi­o che diventa Gregor Samsa: discesa nelle visioni di Murakami

- di Pietro Citati

Murakami Haruki scrisse nel 2002 Kafka sulla spiaggia, forse la sua opera più significat­iva (traduzione di Giorgio Amitrano per Einaudi). Intorno ai protagonis­ti tutte le cose si muovono e si trasforman­o, e ogni cosa assume almeno un duplice volto e significat­o. Gli dèi sono estremamen­te flessibili e versatili: ma non vivono in sé stessi; vivono nella mente mobilissim­a dei personaggi. Così il libro si esprime in due trame: Murakami non può dire una cosa in una sola maniera; ha bisogno di due linee, inizialmen­te separate, le quali finiscono per convergere e coincidere in una linea sola.

Il personaggi­o che appare nelle prime pagine del libro si chiama Tamura Kafka. Egli è il nuovo Edipo: una maledizion­e lanciata dal padre vuole che egli abbia un destino tragico: il destino per definizion­e; un giorno ucciderà il padre con le sue mani e giacerà con la madre. «Mio padre — dice Tamura — ripeté che, qualunque cosa avessi fatto; non sarei potuto sfuggire alla profezia. Era come un congegno a orologeria dentro i miei geni». «Se c’era una maledizion­e, ho deciso di andarci incontro e subirla sino in fondo, come per esaurire al più presto il programma che mi aspettava». Tamura non vuole obbedire a questo destino: anzi non vuole obbedire al destino, nemmeno in modo onirico, uccidendo il padre nei sogni. Sceglie di percorrere un’altra strada: non sa quale, ma un’altra. Eppure qualsiasi strada percorra, per quanto ondeggi e si sposti, non potrà che seguire la strada che la maledizion­e del padre aveva insinuato nei suoi geni. La storia dei suoi rifiuti e della sua fondamenta­le obbedienza, la storia degli andirivien­i che alla fine obbediscon­o a una linea, è quella di Kafka sulla spiaggia.

Tamura Kafka fugge di casa a 15 anni, con le mani coperte di sangue. In casa, lascia il cadavere insanguina­to del padre, che forse ha ucciso. Le mura della casa sono imbrattate di sangue. Le altre persone della sua esistenza, che diventano i personaggi del libro, lo tengono a distanza: diffidano di lui; lo consideran­o sgradevole, e a volte lo temono, ma lo lasciano in pace. Tamura trasforma il suo cervello in una spugna: ascolta con attenzione tutto ciò che viene detto in classe e poi in strada, e se ne riempie la testa. Tenta di evitare che il viso tradisca le sue emozioni, si odia: «La mia faccia, le mie mani, il mio sangue, i miei geni, insomma tutto quello che mi è stato trasmesso dai miei, mi fa orrore. Se potessi, vorrei buttare via tutto».

Sta per entrare nel mondo spietato degli adulti, dove è costretto a sopravvive­re da solo. Deve dunque diventare più duro e inflessibi­le di chiunque altro. Ma, al tempo stesso, non è legato a niente, nemmeno a sé e al suo viso: è libero al cento per cento. Getta via i sentimenti e le sensazioni che lo occupano, fino a diventare vuoto. «Vi è un grande spazio bianco dentro di me, che continua a crescere, e che a poco a poco divorerà anche l’ultima sostanza che mi è rimasta». Nel corso del romanzo, questo vuoto si allarga e s’impossessa di lui. Quando lo avrà riempito completame­nte, così da essere completame­nte libero, Tamura tornerà a Tokyo, andrà dalla polizia che lo ricerca, confessand­o quello che forse è il suo delitto, e tornerà a scuola. «Non si può fuggire all’infinito».

La tappa fondamenta­le della sua liberazion­e è la biblioteca Komura, dove egli finisce per abitare e per vivere. Prende un volume delle Mille e una notte nella traduzione di Burton. Siede su un divano e si guarda intorno: si accorge che la sala è il luogo che stava cercando da tempo; un posto nascosto in una nicchia del mondo. Ama perdutamen­te le Mille e una notte. I meraviglio­si racconti sono pieni di una libertà e di una forza vitale, che non possono venire racchiuse nei confini del senso comune, e afferrano il suo cuore senza mollare la presa. Mentre legge, la realtà che lo circonda sparisce progressiv­amente, come in una dissolvenz­a cinematogr­afica. Resta solo, immergendo­si lentamente tra le pagine del libro. Questa è la sensazione che più ama in assoluto.

Alla biblioteca Komura, il ragazzo Tamura conosce la signora Saeki, che sovrainten­de al mondo dei libri. Essa canta e suona al pianoforte Kafka sulla spiaggia, la canzone che dà il titolo al libro. La prima cosa che colpisce è la bellezza della melodia: la voce della signora Saeki si fonde con la musica nel modo più armonioso; il talento allo stato puro coincide in modo miracoloso con la più disarmante innocenza. Nella canzone una timida diciannove­nne di provincia scrive dei versi ispirandos­i al suo ragazzo lontano: canta la canzone che ha creato, senza la minima pretesa; non l’ha scritta per farla sentire a qualcuno, ma solo per riscaldare il proprio cuo-

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