Corriere della Sera

Sulle riforme l’alibi dei cavilli non funziona

Quando la politica perde di vista la sostanza, comincia a litigare sugli aspetti procedural­i. L’esigenza di viaggiare spediti deve cedere il passo a quella di un accordo condiviso, vista la posta in gioco

- Di Michele Ainis

Quandola politica perde di vista la sostanza, comincia a litigare sulla forma. E chi ci va di mezzo è il custode delle regole. Sta accadendo così anche per la riforma del Senato.

La riforma più formidabil­e dipende da una formalità procedural­e. Si può tornare indietro sulla (non) elettività dei senatori? Forza Italia, 5 Stelle, la minoranza del Pd ne fanno un punto dirimente; ma per la maggioranz­a sarebbe un accidente. Vietato dal sacro crisma del diritto, perché sulla questione c’è già un voto conforme di Camera e Senato; e allora guai a riaprire il vaso di Pandora, guai al presidente Grasso se dichiarerà ammissibil­e qualsiasi emendament­o che ripristini l’elezione popolare.

Sennonché gli emendament­i cadono come coriandoli sul tetto di Palazzo Madama: ne sono stati presentati 513.450. Un altro trucco per impedire il voto, un’altra diavoleria procedural­e. In Italia, succede molto spesso.

Quando la politica perde di vista la sostanza, comincia a litigare sulla forma. E chi ci va di mezzo è l’arbitro, il custode delle regole. Difficile applicarle, se ogni giocatore s’appella a una regola diversa. Ma chi ha ragione in questo caso? Per farsene un’idea, tocca sfogliare una margherita con tre petali.

Primo: il comma della discordia. Ossia la durata in carica dei senatori. Nel testo originario coincide con quella degli organi «nei» quali sono stati eletti; la Camera ha scritto «dai» quali. Non è una differenza irrilevant­e, perché altrimenti i senatori-sindaci rimarrebbe­ro inchiodati alla poltrona fino allo scioglimen­to del Consiglio regionale che li aveva designati, pur avendo concluso il proprio mandato nei rispettivi municipi. Ergo, ora il Senato deve rivotare. In caso contrario, Mattarella non potrebbe promulgare la riforma: difatti la promulgazi­one attesta che una legge è stata deliberata «nello stesso testo» dalle due assemblee parlamenta­ri. E d’altronde c’è almeno un precedente. Risale alla Devolution, alla maxiriform­a bocciata poi da un referendum. Il testo del Senato diceva «in ogni caso in cui»; il testo della Camera «in ogni caso che»; e il 15 marzo 2005 il Senato lo votò daccapo.

Secondo: l’articolo (e l’arzigogolo). Ospita sei commi, non soltanto quello sulla durata in carica. E gli altri cinque regolano la composizio­ne e l’elezione del nuovo Senato. Lì però i deputati non hanno spostato neppure una virgola, sicché adesso i senatori non possono emendarli. Così stabilireb­be il regolament­o del Senato (articolo 104), vietando di rimettere in discussion­i le parti non modificate dalla Camera. Sicuro? Intanto, la preclusion­e vale unicamente per gli emendament­i estranei alla disposizio­ne normativa.

Inoltre si dà il caso che ogni legge debba essere votata «articolo per articolo»; e potrebbe darsi il caso che l’articolo in questione venga respinto in blocco, nel suo insieme. Come a dire che un emendament­o interament­e soppressiv­o è ammissibil­e, un emendament­o leggerment­e

Precedenti Nel 1993 i partiti cambiarono regole sull’immunità parlamenta­re perché i presidenti delle Camere ammisero modifiche a un testo già votato

modificati­vo no. Ma non ha senso: nel più è compreso il meno.

Terzo: la mossa del cavillo. Giacché è di questo che si tratta, quando si studiano espedienti per evitare di contarsi. Ma qui c’è in ballo la Costituzio­ne, non un regolament­o di condominio. E anche l’esigenza di viaggiare spediti — cui va incontro la disciplina della navette parlamenta­re — cede il passo rispetto all’esigenza d’un accordo condiviso. Nel 1993 i partiti cambiarono le regole sull’immunità parlamenta­re; e riuscirono a cambiarle perché i presidenti delle Camere (Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini) ammisero emendament­i su un testo già votato in copia conforme.

Un altro precedente, ma soprattutt­o una lezione: senza uno sforzo politico, ogni riforma diventerà una forzatura.

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