IL BRASILE IN RECESSIONE E IL POSSIBILE RITORNO DI LULA
Ora il Brasile è ufficialmente in recessione. Due trimestri consecutivi di contrazione dell’economia, e addirittura il 2,6 per cento in meno tra un anno e l’altro. Non succedeva da vent’anni e se si confermassero le previsioni di alcuni economisti (anche tutto il 2016 sarà in negativo) si tratterebbe del peggior biennio addirittura dagli anni Trenta. Naturalmente non tutto il terreno guadagnato nel decennio d’oro dell’economia brasiliana è andato perduto, soprattutto dal punto di vista sociale, ma impressiona la frenata. Nemmeno durante la crisi planetaria del 2008-2009 le cose erano andate così male.
Il governo di Dilma Rousseff ammette qualche errore, pochi, e sostiene che le cause sono in gran parte esterne. Il calo dei prezzi delle commodity, del quale il Brasile è grande esportatore, i capitali stranieri che si sono prosciugati a causa della fine del denaro facile negli Stati Uniti.
La spiegazione non convince quasi nessuno. Nel primo mandato (2011-2014) la Rousseff ha avallato un modello interventista che non ha funzionato. È stata abbandonata la rigida politica fiscale degli anni di Lula, è cresciuta fuori controllo la spesa pubblica, abbandonate le mete di inflazione, il Tesoro ha pompato denaro nell’economia finanziando imprese private per opere gigantesche, i salari sono aumentati ben oltre la crescita di produttività. I consumi non hanno potuto reggere i ritmi precedenti e l’industria si è inceppata.
Nella tempesta perfetta c’è anche la crisi politica. La Rousseff ha toccato un minimo di 8 per cento di popolarità a causa degli scandali di corruzione, l’opposizione non esclude la possibilità di un impeachment. Anche Lula rischia di essere indagato.
Ieri l’ex presidente ha detto di essere disposto a candidarsi di nuovo nel 2018 piuttosto che far vincere l’opposizione. I sondaggi però giudicano inutile la sua mossa con tre anni di preavviso: l’ex idolo dei brasiliani e della sinistra mondiale perderebbe, e pure male.