Corriere della Sera

La raccomanda­zione

- Paola Pollo

Fino ai 12 anni si possono «spingere» ragazze e ragazzi verso una disciplina. Ma dai 13 basta con le forzature: devono scegliere loro

o sport bisognereb­be vederlo un po’ come la scuola: con gli anni della formazione, dell’apprendime­nto della tecnica e poi (eventualme­nte) della scelta, della specializz­azione, insomma in base alle proprie attitudini (perché ci sono, anche quelle) e delle proprie passioni. Ma se nell’istruzione l’orientamen­to è diventato quasi una materia con insegnanti e psicologi ai quali rivolgersi, scegliere prima e consigliar­e poi l’«attività motoria» è diventato l’interrogat­ivo classico che ogni settembre inquieta genitori e bambini. Per la disciplina, per la logistica, per i costi, per le dinamiche e le aspettativ­e familiari.

«È vero — commenta Lorenzo Marugo, genovese, medico sportivo e della nazionale di nuoto — che un tempo era la scuola a fare tutto il lavoro di preparazio­ne. Basti pensare all’atletica, dove non vinciamo più come prima perché non ci sono più i serbatoi che erano appunto le scuole, che in un certo senso insegnando indirizzav­ano. Ora che l’attività motoria è limitata a volte anche solo all’aula, devono, al buio, decidere i genitori e capita sempre più spesso che chiedano a noi, medici sportivi. Vuoi perché pensano che ci sia una predisposi­zione di cui tenere conto (che c’è, ma sono scelte da fare dopo), vuoi perché ci sono aspetti caratteria­li». Di facile intuizione i suggerimen­ti: uno sport di squadra come pallavolo, basket o calcio per la socializza­zione, la condivisio­ne; per la coordinazi­one sport individual­i come atletica e nuoto, che sono anche i più completi. «Mai sottovalut­are la preparazio­ne atletica di base però — sostiene il medico — e tenere sempre a mente, qualsiasi sport si scelga, di non far fare al proprio figlio o figlia, perché ormai non ci sono attività maschili o femminili, cose che possono fare male: no ad ambienti malsani o attrezzatu­re sbagliate, no all’intensità (carichi elevati). Sulla durata, cioè sull’impegno, dico che non è così pericolosa, a patto che sia corretta: lo sport sostituisc­e quello che un tempo erano le giornate intere a giocare in cortile o per strada».

Un punto sul quale quasi non c’è trattativa è il disagio: tutti d’accordo nello «spingere» verso più attività sino ai 12 anni, ma dai 13 in poi basta con le forzature. «Cercare di capire i loro desideri a quel punto è fondamenta­le. E se ci sono disagi e malesseri, meglio cambiare ambiente. Non insistere. Così come è sacrosanto contrastar­e le mode per questa o quella disciplina. E le aspettativ­e». Il calcio per esempio: «Troppe illusioni e competitiv­ità. Una volta mi arrivò un bambino di nove anni con menisco e crociati rotti: mi chiedo con quale forza gli fossero andati sopra!».

Ultima consideraz­ione, che a sorpresa il medico valuta la più importante: la logistica: «Meglio preferirei nei primi anni l’impianto sportivo più vicino, perché passare ore e ore per arrivare a destinazio­ne non è il caso».

Persino un atleta come Giovanni Franceschi, oro europeo nel nuoto nel 1983, che pure di sacrifici e rinunce ne ha fatte, concorda che la scelta di una struttura vicina è vincente nei primi anni e che poi passione e determinaz­ioni portano a raggiunger­e impianti anche in capo al mondo. Nelle presentazi­oni dei suoi camp estivi aperti ai ragazzi, Franceschi punta il dito sulla tecnica: «Sino ai tredici anni non dovrebbe contare nulla d’altro, perché è quella che poi ti farà fare il salto, se lo verrai. Sono passati da noi atleti come Greg Paltrinier­i (oro sui 1500 ai mondiali di Kazan ndr) che quando erano qui, ragazzi, non avresti scommesso nulla».

Non c’è sportivo che non cerchi di spegnere la molla della competitiv­ità e sopratutto della specializz­azione. «Venuto a mancare il ruolo della scuola che indirizza vorrebbero lasciare allo sport questo compito, ma lo sport cerca atleti e non allievi — rincara il dirigente federale Stefano Mei, campione europeo di atletica negli anni Ottanta — e non va bene. E manca la cultura. In controtend­enza a quello che accade nel resto del mondo. Dove l’istruzione va di pari passo con la formazione sportiva». Non è per esempio mai abbastanza pubblicizz­ata in Italia la possibilit­à, praticando uno sport con più impegno nelle superiori, di avere borse di studio per l’estero pur non essendo un campione ma sempliceme­nte in grado di ricoprire questo o quel ruolo nel team sportivo dell’università.

Tutto sembra poi più facile con lo sport di squadra perché in qualche modo è vissuto come sostituto del gioco di gruppo. Calcio dominante con il nuovo fenomeno delle bambine, o piuttosto ragazzine, dodici-tredici anni, che più libere di decidere lasciano danza o pattinaggi­o per il pallone. E non sono più aliene ma giocano in squadra con i coetanei sino a 12 anni. Così anche nel rugby: «E spesso sono anche più sveglie dei loro compagni — è la consideraz­ione di Piero Tolot, educatore del Cus Milano, a sua volta padre di una figlia che ha fatto dell’ovale la sua vita —. Spesso perché hanno fratelli che giocano, comunque arrivano, hanno meno paure e si buttano nella mischia».

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