La raccomandazione
Fino ai 12 anni si possono «spingere» ragazze e ragazzi verso una disciplina. Ma dai 13 basta con le forzature: devono scegliere loro
o sport bisognerebbe vederlo un po’ come la scuola: con gli anni della formazione, dell’apprendimento della tecnica e poi (eventualmente) della scelta, della specializzazione, insomma in base alle proprie attitudini (perché ci sono, anche quelle) e delle proprie passioni. Ma se nell’istruzione l’orientamento è diventato quasi una materia con insegnanti e psicologi ai quali rivolgersi, scegliere prima e consigliare poi l’«attività motoria» è diventato l’interrogativo classico che ogni settembre inquieta genitori e bambini. Per la disciplina, per la logistica, per i costi, per le dinamiche e le aspettative familiari.
«È vero — commenta Lorenzo Marugo, genovese, medico sportivo e della nazionale di nuoto — che un tempo era la scuola a fare tutto il lavoro di preparazione. Basti pensare all’atletica, dove non vinciamo più come prima perché non ci sono più i serbatoi che erano appunto le scuole, che in un certo senso insegnando indirizzavano. Ora che l’attività motoria è limitata a volte anche solo all’aula, devono, al buio, decidere i genitori e capita sempre più spesso che chiedano a noi, medici sportivi. Vuoi perché pensano che ci sia una predisposizione di cui tenere conto (che c’è, ma sono scelte da fare dopo), vuoi perché ci sono aspetti caratteriali». Di facile intuizione i suggerimenti: uno sport di squadra come pallavolo, basket o calcio per la socializzazione, la condivisione; per la coordinazione sport individuali come atletica e nuoto, che sono anche i più completi. «Mai sottovalutare la preparazione atletica di base però — sostiene il medico — e tenere sempre a mente, qualsiasi sport si scelga, di non far fare al proprio figlio o figlia, perché ormai non ci sono attività maschili o femminili, cose che possono fare male: no ad ambienti malsani o attrezzature sbagliate, no all’intensità (carichi elevati). Sulla durata, cioè sull’impegno, dico che non è così pericolosa, a patto che sia corretta: lo sport sostituisce quello che un tempo erano le giornate intere a giocare in cortile o per strada».
Un punto sul quale quasi non c’è trattativa è il disagio: tutti d’accordo nello «spingere» verso più attività sino ai 12 anni, ma dai 13 in poi basta con le forzature. «Cercare di capire i loro desideri a quel punto è fondamentale. E se ci sono disagi e malesseri, meglio cambiare ambiente. Non insistere. Così come è sacrosanto contrastare le mode per questa o quella disciplina. E le aspettative». Il calcio per esempio: «Troppe illusioni e competitività. Una volta mi arrivò un bambino di nove anni con menisco e crociati rotti: mi chiedo con quale forza gli fossero andati sopra!».
Ultima considerazione, che a sorpresa il medico valuta la più importante: la logistica: «Meglio preferirei nei primi anni l’impianto sportivo più vicino, perché passare ore e ore per arrivare a destinazione non è il caso».
Persino un atleta come Giovanni Franceschi, oro europeo nel nuoto nel 1983, che pure di sacrifici e rinunce ne ha fatte, concorda che la scelta di una struttura vicina è vincente nei primi anni e che poi passione e determinazioni portano a raggiungere impianti anche in capo al mondo. Nelle presentazioni dei suoi camp estivi aperti ai ragazzi, Franceschi punta il dito sulla tecnica: «Sino ai tredici anni non dovrebbe contare nulla d’altro, perché è quella che poi ti farà fare il salto, se lo verrai. Sono passati da noi atleti come Greg Paltrinieri (oro sui 1500 ai mondiali di Kazan ndr) che quando erano qui, ragazzi, non avresti scommesso nulla».
Non c’è sportivo che non cerchi di spegnere la molla della competitività e sopratutto della specializzazione. «Venuto a mancare il ruolo della scuola che indirizza vorrebbero lasciare allo sport questo compito, ma lo sport cerca atleti e non allievi — rincara il dirigente federale Stefano Mei, campione europeo di atletica negli anni Ottanta — e non va bene. E manca la cultura. In controtendenza a quello che accade nel resto del mondo. Dove l’istruzione va di pari passo con la formazione sportiva». Non è per esempio mai abbastanza pubblicizzata in Italia la possibilità, praticando uno sport con più impegno nelle superiori, di avere borse di studio per l’estero pur non essendo un campione ma semplicemente in grado di ricoprire questo o quel ruolo nel team sportivo dell’università.
Tutto sembra poi più facile con lo sport di squadra perché in qualche modo è vissuto come sostituto del gioco di gruppo. Calcio dominante con il nuovo fenomeno delle bambine, o piuttosto ragazzine, dodici-tredici anni, che più libere di decidere lasciano danza o pattinaggio per il pallone. E non sono più aliene ma giocano in squadra con i coetanei sino a 12 anni. Così anche nel rugby: «E spesso sono anche più sveglie dei loro compagni — è la considerazione di Piero Tolot, educatore del Cus Milano, a sua volta padre di una figlia che ha fatto dell’ovale la sua vita —. Spesso perché hanno fratelli che giocano, comunque arrivano, hanno meno paure e si buttano nella mischia».