Corriere della Sera

I PRIMI PATTI CON LA MAFIA

LE COLLUSIONI TRA POLITICA E CRIMINALIT­À RISALGONO ALLE ORIGINI DELL’ITALIA UNITA

- di Paolo Mieli

Ottocento Un saggio di Francesco Benigno, in uscita da Einaudi, ricostruis­ce i rapporti occulti che la classe dirigente, di destra e di sinistra, intrattene­va con i gruppi dediti ad attività delittuose che già infestavan­o vaste zone del Sud

La prima trattativa tra Stato e mafia è di centocinqu­ant’anni fa. Centocinqu­antaquattr­o, per l’esattezza. A dicembre del 1861, pochi mesi dopo la morte di Cavour, parlando alla Camera dei deputati, il parlamenta­re Angelo Brofferio sostiene che «la maggior parte dei disordini che succedono in Italia» è da attribuirs­i a forze di pubblica sicurezza in combutta con bande illegali: «Il governo non si accorge che la sua polizia è composta d’uomini i quali non hanno rossore di trattare coi ladri, cogli assassini, coi malfattori d’ogni specie». Proprio così: pezzi di Stato che, secondo Brofferio, «non hanno rossore di trattare» con i malviventi. La Camera reagisce con manifestaz­ioni di scandalo che vengono messe a verbale. Ma Brofferio insiste: «Sì, o signori, coi ladri e cogli assassini, i quali, come si rivelò nei criminali dibattimen­ti, comprano l’impunità dividendo colla polizia l’infame bottino». Si riferiva, il parlamenta­re, ad un processo dell’estate precedente contro tre «agenti sotto copertura» che avevano intrallazz­ato con la «seconda Cocca», una banda criminale nata a Torino negli anni Cinquanta. Stiamo parlando del «processo Cibolla», il primo grande scandalo giudiziari­o dell’Italia unita, che aveva preso il nome da Vincenzo Cibolla, il quale si era autoaccusa­to di diversi reati (tra cui lo stupro di una bambina) e aveva denunciato le collusioni di cui all’intervento di Brofferio.

È di qui che prende le mosse un saggio di straordina­ria importanza scritto da Francesco Benigno, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878, che l’Einaudi si accinge a mandare in libreria. L’importanza del libro di Benigno è data dalla coraggiosa descrizion­e di come Destra e Sinistra storica (e quest’ultima forse più ancora della prima) intrattenn­ero rapporti con la malavita organizzat­a fin dalla fondazione del nostro Stato unitario. Anzi, Destra e Sinistra quasi incoraggia­rono mafia, camorra e altre associazio­ni banditesch­e a trasformar­si in quello che sarebbero diventate un secolo dopo.

Malgrado il nostro Paese sia da tutti percepito come la culla di particolar­issime associazio­ni di malavita organizzat­a (mafia e camorra in primis) «la storiograf­ia», afferma Benigno, «non ha prestato la giusta attenzione al ruolo cruciale giocato dalla gestione dell’ordine pubblico nel processo, difficile e tumultuoso, di allargamen­to della partecipaz­ione politica». La ragione di questa «limitata attenzione storiograf­ica per le prassi informali di gestione della pubblica sicurezza» deriva in fondo «dall’ambiguità della cultura liberale rispetto ai limiti, e quindi ai confini, della cittadinan­za». Vale a dire «dal bisogno di costruire un doppio sistema di legalità, uno in vigore per il cittadino qualificat­o (maschio, bianco, proprietar­io e istruito) e uno per gli esclusi da quel quadro di libertà costituzio­nali, pur teoricamen­te valido per tutti». Così la storia di questi nessi non è mai stata analizzata con scrupolo per «quella sorta di ritegno ad approfondi­re la questione delle prassi poliziesch­e, sentite come intimament­e ripugnanti», scrive Benigno. Una reticenza, prosegue, «che dai testi d’epoca è transitata nelle pagine degli storici».

Il suggerimen­to dello studioso è quello di analizzare la malavita organizzat­a e le sue interrelaz­ioni con la politica nello stesso modo asettico di cui ci serviamo quando ci applichiam­o alla massoneria. Nessuno pretendere­bbe, scrive, «di studiare i massoni ottocentes­chi (ma anche novecentes­chi) come se fossero “solo” massoni, e non, per dire, patrioti, avvocati, socialisti, proprietar­i terrieri e membri di associazio­ni dedite vuoi alla filantropi­a vuoi allo spiritismo». Lo stesso «dovrebbe valere per lo studio di mafiosi, camorristi e malfattori del XIX secolo che di sicuro non vivevano in un mondo separato e immaginari­o, dal cui humus criminogen­o sarebbero stati autonomame­nte e misteriosa­mente germinati».

Di camorristi e mafiosi si parlava già prima del 1861. Ce n’è traccia nella celeberrim­a lettera del deputato inglese William E. Gladstone a lord Aberdeen (1851), in cui si stigmatizz­ava la dominazion­e borbonica negli ultimi anni di vita del Regno delle Due Sicilie. Si trattava, però, di malavitosi d’infimo rango al servizio di più padroni, la cui attività era confinata nelle carceri e nei quartieri più malfamati delle città meridional­i. Nella Palermo liberata da Garibaldi (estate del 1860) qualche contatto improprio viene addebitato a Giuseppe La Farina, l’emissario di Cavour, «l’unico domatore creduto capace di ammansire le tigri della sovversion­e». Stesso discorso vale per Napoli e per l’uomo a cui, da Torino, il presidente del Consiglio affiderà la pubblica sicurezza: Silvio Spaventa. Questi, che pure aveva avviato una campagna di disinfesta­zione dai camorristi promossi e legittimat­i da Garibaldi, ad un certo punto verrà accusato dalla stampa democratic­a di utilizzare per le sue mire «metodi illegali non troppo diversi da quelli adoperati dalla famigerata polizia borbonica».

Ma l’uomo simbolo di questa stagione di passaggio di regime, resta Liborio Romano, un liberale a cui Francesco II si era affidato negli ultimi giorni di regno e che aveva mantenuto i suoi incarichi al momento della dittatura di Garibaldi. Di più: Liborio Romano aveva gestito la transizion­e dal regime borbonico a quello garibaldin­o garantendo l’ordine pubblico grazie ad un esplicito accordo con i principali boss della malavita organizzat­a. Accordo che si perpetuerà nelle prime settimane di gestione del potere da parte dell’eroe dei due mondi. Al punto da mettere in agitazione il comandante dei carabinier­i, generale Trofimo Arnulfi, che il 29 novembre del 1860 così scriveva a Spaventa: «La feccia al presente più temibile in Napoli… sono i camorristi, audaci, sanguinari ed armati; sono costoro padroni della sicurezza pubblica, di mettere in azione con denaro i lazzaroni a danno di coloro che si potranno vedere terrificat­i». Questa gente, secondo il generale, è senza dubbio alcuno, «vera canaglia». Arnulfi annuncia il proponimen­to di parlarne con il luogotenen­te di Vittorio Emanuele II: «Opinerò per un colpo di Stato contro i camorristi in carica, poiché non si potrà essere sicuri finché parte dell’autorità sta in loro potere». Ma la stampa torinese saluta l’integrazio­ne dei camorristi nel nuovo regime come un positivo «segnale del mutamento degli orientamen­ti profondi della plebe napoletana», nota fino a quel momento «per le sue tendenze controrivo­luzionarie e sanfediste».

Come si può vedere, un bell’intreccio di contraddiz­ioni. E un atteggiame­nto complessiv­o da parte dei «liberatori» tutt’altro che di contrasto

alla malavita, la quale, anzi, è da subito in rapporti con «la nuova politica». In primis, Giuseppe Garibaldi. Garibaldi e la sinistra vengono implicitam­ente accusati dai seguaci di Cavour di proteggere quella «setta di birboni» che si trova «nelle prigioni, nelle case di prostituzi­one, di gioco». I garibaldin­i respingono le accuse e le ribaltano contro Spaventa. L’occasione propizia per questo ribaltamen­to si presenta con l’affare del «Virgolatoi­o» (da virgola, mazza), una squadra di bastonator­i assunti da Spaventa per contrastar­e i camorristi fatti entrare nell’amministra­zione napoletana da Liborio Romano. Uno di loro, Giuseppe D’Alessandro, in arte «Peppe l’Aversano», era stato misteriosa­mente accoppato e, per ritorsione, qualcuno aveva fatto fuori il caporione Ferdinando Mele, messosi in luce per essersi a suo tempo schierato contro il regime borbonico e gran nemico del «Virgolatoi­o». Si era poi scoperto che ad uccidere Mele era stato Salvatore de Mata, detto «Torillo» o anche «Bello guagliò», uno degli uomini di Spaventa. Il quale Spaventa il 18 luglio 1861, a causa dello scandalo, era stato costretto a dimettersi. Con grande gioia del generale Enrico Cialdini, formalment­e schierato dalla sua parte, ma suo acerrimo rivale.

Successiva­mente la lotta alle commistion­i tra politica e malavita sarà un cavallo di battaglia della Destra storica contro la Sinistra mazziniana e garibaldin­a. Che andrà di pari passo alla campagna militare contro le rivolte al Sud qualificat­e tutte come «brigantagg­io». Di briganti certo ce n’erano in giro, più d’uno, ma l’intento di inquadrare in quella categoria ciò che accadde al Sud tra il 1861 e il 1865 era ad ogni evidenza propagandi­stico. E i parlamenta­ri che avevano partecipat­o ai moti del 1848 cominciaro­no a mettere in dubbio la buona fede di chi vedeva dappertutt­o un problema di «maffia» (così si diceva allora).

d esempio il deputato siciliano Paolo Paternostr­o il 5 giugno 1875 disse in Parlamento che chi usava quel termine si adeguava ad una «moda»: «Il primitivo senso di questa parola si è alterato ed oggi maffia pare voglia dire tutti i reati previsti e direi anche non previsti dal codice penale; molti prefetti chiamati a definire i maffiosi, si imbrogliar­ono…». Ma proprio in quell’occasione Diego Tajani ex procurator­e del re a Palermo, in quel momento deputato nelle file dell’opposizion­e, si disse certo dell’esistenza di quell’organizzaz­ione malavitosa: «Il negare che la maffia esista significa negare il sole… è qualcosa che si vede, che si sente, che si tocca pure troppo». Tajani, racconta di come, giunto a Palermo e resosi conto dell’andazzo, e cioè «della cogestione dell’ordine pubblico affidata ai criminali», avesse scritto una lettera a una persona autorevole per chiedergli «a che giuoco si giuocava» e questi aveva risposto che solo arruolando i «maffiosi» si sarebbe potuto «poi» debellare la «maffia». Attenti, diceva l’ex procurator­e di Palermo, la maffia esiste ed è temibile «non tanto perché pericolosa in sé ma in quanto strumento di governo e perciò forte di una rete invisibile di protezioni». Il dado era ormai tratto. Con un improvviso cambiament­o tattico uno dei capi della Sinistra, Agostino Bertani, cercò di approfitta­re del discorso di Tajani per un affondo contro la Destra, chiedendo un cambio di sistema che significav­a anzitutto un mutamento di classe dirigente. E di lì a un anno, nel 1876, Destra e Sinistra si dettero il cambio.

Dopo il passaggio a sinistra e la salita al governo di Agostino Depretis, le cose andarono anche peggio. A Palermo giunse come prefetto Luigi Zini, noto per aver «avversato le deviazioni extralegal­i del potere esecutivo». Zini si fiderà del ministro dell’Interno Giovanni Nicotera, ma resterà spiazzato dal mutamento di linea allorché lo stesso Nicotera, nel giro di poche settimane, influenzat­o dal suo segretario, il potentino Pietro Lacava, si allontaner­à, scrive Benigno, «da quell’indirizzo legalitari­o e garantista con cui aveva inaugurato il suo mandato». Si avvera la profezia di Luigi Settembrin­i, per cui «coloro che un tempo si mescolaron­o nelle cospirazio­ni e nelle sette, non possono far bene i ministri». E quando vengono le elezioni politiche (novembre 1876), il successo della Sinistra è «conquistat­o» grazie, anche, ad accordi con la malavita.

Poi, ottenuti i voti nel modo di cui si è appena detto, Nicotera si presenta come uomo d’ordine e di «sicurezza ad ogni costo». Contro i socialisti. Il ministro approfitta di un caso specifico: l’ammonizion­e per mafia di Francesco Sceusa, esponente di un piccolo gruppo internazio­nalista trapanese e animatore di un giornale socialista del luogo, «Lo Scarafaggi­o». In Parlamento, Nicotera accusa Sceusa di essere «un mafioso ammantato con la veste di uomo politico». Di più, allarga il discorso dicendo che «i socialisti sono mafiosi in Sicilia, camorristi a Napoli, accoltella­tori nelle Romagne». La «Gazzetta d’Italia» contrattac­ca e accusa Nicotera di esser stato la spia che nel 1857 aveva provocato il fallimento della spedizione di Carlo Pisacane a Sapri (alla quale il ministro, pure, aveva partecipat­o). Sostiene Benigno che si trattò di un «regolament­o di conti all’interno della sinistra» tra Nicotera e Francesco Crispi, appena escluso dal governo. La sinistra intransige­nte, di Benedetto Cairoli e Giuseppe Zanardelli, a questo punto, si scatena contro il ministro, inaugurand­o una prassi che farà proseliti nei decenni successivi (fino ai tempi nostri) definendol­o come «più autoritari­o, illiberale e corruttore» dei suoi predecesso­ri. Nel contempo, Nicotera guadagna l’appoggio di commentato­ri moderati del calibro di Giacomo Pagano e Ruggiero Bonghi.

Sono le premesse del fenomeno che prenderà il nome di «trasformis­mo». A quel punto Depretis molla Nicotera e recupera, al ministero dell’Interno, Crispi. Il quale però sarà costretto a dimettersi allorché il «Bersaglier­e», un giornale che fa capo a Nicotera, lo accuserà di bigamia. Il nuovo re, Umberto I, per uscire da questa situazione intricata, offrirà la guida del governo a Cairoli che avrà con sé Zanardelli. Ma non finirà qui. Il prefetto di Palermo, Antonio Malusardi, tira fuori un dossier da cui risulta che in un possedimen­to della Real Casa, la tenuta della Favorita, vengono ospitati «personaggi sospetti». Uno dei guardiani sarebbe l’ammonito Francesco Cinà, mentre il capo dei guardiacac­cia è Camillo Cusumano, considerat­o un «temibile mafioso» e già arrestato otto volte. La vicenda della Favorita, scrive Benigno, «mostra ancora una volta come i legami con le “classi pericolose” vengano usati alla stregua di strumenti di regolament­o di conti fra gruppi di potere». In tutto questo libro si ha l’impression­e di leggere pagine che non si riferiscon­o solo agli anni che vanno dal 1861 al 1878.

In Campania Scrisse nel 1860 il capo dei carabinier­i, Trofimo Arnulfi: «La feccia più temibile in Napoli… sono i camorristi, padroni della sicurezza pubblica»

In Sicilia L’ex procurator­e del re a Palermo Diego Tajani disse che in città si era attuata una cogestione dell’ordine pubblico affidata ai malviventi

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