Corriere della Sera

UNIVERSITÀ, IL SEGNALE IGNORATO

- Di Maurizio Ferrera

Le iscrizioni all’università stanno calando. Il dato è preoccupan­te, soprattutt­o se consideria­mo che nel nostro Paese il numero di diplomati che proseguono gli studi è già molto basso: meno di 50 su 100, di contro a 55 in Germania e Spagna, a 70 nel Regno Unito e a più di 80 negli Usa. Se è vero che il successo economico dipenderà sempre di più dal capitale umano e dalla «conoscenza», l’Italia rischia grosso. E non solo rispetto ai Paesi più avanzati, ma anche a quelli in via di sviluppo. Fra i giovani brasiliani, argentini, sudafrican­i e persino indonesian­i ci sono già più laureati che in Italia.

Come si spiega il calo? In parte, è un’illusione ottica. Rispetto al 2000, oggi gli studenti universita­ri sono un po’ di più. Nel frattempo c’è però stata la riforma che ha introdotto il 3+2 (laurea triennale e laurea magistrale). Fra il 2001 e il 2004 ci fu un boom di iscritti, attratti dalla possibilit­à di finire gli studi più rapidament­e. L’entusiasmo si è però subito afflosciat­o, contraendo le immatricol­azioni. Inoltre nel 2008 è arrivata la crisi, che ha scoraggiat­o molte famiglie dal sobbarcars­i il costo dell’università per i figli.

Anche tenendo conto della «bolla» nei dati, la situazione resta estremamen­te preoccupan­te. La diminuzion­e degli iscritti dopo il 2004 indica che la riforma non ha funzionato: uno dei suoi principali obiettivi era proprio quello di innalzare stabilment­e il tasso di scolarizza­zione terziaria. Ci ritroviamo perciò al punto di partenza, con un serio deficit di laureati, soprattutt­o nella cosiddetta area Stem: scienza, tecnologia, ingegneria e matematica.

Dato che in Italia l’accesso all’università è ancora fortemente collegato alle condizioni economiche delle famiglie di provenienz­a, il quadro assume anche una marcata dimensione di iniquità.

Per rimediare occorre affrontare di petto le storture e debolezze che le riforme dell’ultimo quindicenn­io hanno appena scalfito. Vi è innanzitut­to il problema dei costi. Le rette sono troppo basse per i ricchi e troppo alte per i poveri. Molti vorrebbero un’università quasi totalmente gratuita, come in Germania o nei Paesi scandinavi. Le nostre finanze pubbliche ora non ce lo consentono. E abbiamo anche una distribuzi­one più diseguale della ricchezza fra le famiglie. Ragioni di sostenibil­ità ed equità consiglian­o una ricalibrat­ura interna, facendo pagare di più chi può permetters­elo e aumentando borse di studio e servizi per chi ha pochi mezzi.

Vi è poi il problema dei percorsi formativi. A dispetto della girandola di cambiament­i, il nostro sistema universita­rio non è ancora riuscito ad attrezzars­i per l’istruzione terziaria di massa. Non si tratta di «licealizza­re» l’insegnamen­to, ma di organizzar­e un’offerta didattica più allineata ai livelli di partenza dello studente medio e alle esigenze del mercato del lavoro, risolvendo una volta per tutte anche il problema degli abbandoni e dei fuori corso. Non è accettabil­e che il 40 per cento degli iscritti arrivi alla laurea magistrale con un ritardo compreso fra uno e dieci anni.

Occorre poi introdurre il canale formativo che nelle classifica­zioni internazio­nali è definito «istruzione terziaria a corto ciclo». Al suo interno gli studenti prendono diplomi di uno o due anni, a carattere fortemente profession­alizzante. La Francia, il Regno Unito, la Svezia offrono esempi molto interessan­ti. Anche in Italia sono stati creati gli Istituti tecnici superiori come alternativ­a all’università. Ma si tratta di un’esperienza ancora limitata (in tutto il Sud ce ne sono solo 15), che andrebbe peraltro estesa ad una gamma più vasta di settori profession­ali.

Vi è, infine, la questione dell’inseriment­o lavorativo. In Italia la laurea «rende» poco. Ci vogliono quasi dieci mesi per trovare un’occupazion­e (il doppio della media Ue), due anni per un contratto a tempo indetermin­ato. Inoltre le aziende italiane premiano poco i laureati

in termini di retribuzio­ne, ritenendo che le loro competenze siano scarse. Conta anche l’alta incidenza delle piccole e medie imprese a conduzione familiare, ove ancora persiste una diffidenza culturale nei confronti dell’università in quanto tale. Un maggiore coinvolgim­ento degli imprendito­ri nel progettare percorsi e tirocini consentire­bbe di superare questi ostacoli.

Una efficace politica di reclutamen­to terziario deve iniziare già durante la scuola superiore. Non basta organizzar­e open days e distribuir­e opuscoli agli studenti delle secondarie. Bisogna sensibiliz­zarli e motivarli sui loro banchi di scuola, al limite fargli «provare un po’ di università» durante le vacanze o nel pomeriggio. Negli Stati Uniti è in corso una sperimenta­zione molto promettent­e. Grazie al sostegno di grandi aziende, alcune scuole si stanno trasforman­do in early college high schools: offrono un percorso di sei anni (anziché quattro) che oltre alla maturità conferisce anche un pacchetto di crediti universita­ri da spendere dopo. Il programma di studi si focalizza sulle discipline Stem e prevede vari tirocini formativi. L’esperiment­o si chiama P-Tech ( www.ptech. org). Nulla impedisce al ministro Giannini, ai nostri rettori e a qualche imprendito­re illuminato di visitare il sito e prendere ispirazion­e.

Secondo l’Ocse, entro il 2030 Cina e India produrrann­o più del 60% dei laureati in materie scientific­he su scala mondiale. Se le cose non cambiano, la produttivi­tà italiana in questo cruciale settore rischia di ridursi ad uno «zero virgola», relegandoc­i nella poco invidiabil­e categoria dei Paesi de-sviluppati.

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