L’Everest di Gyllenhaal Brividi in 3D a Venezia
Scene spettacolari con il divo Gyllenhaal Il regista: nel mio film l’epica di Hollywood
ha parlato coi produttori del film, e si è convinto di «una ricostruzione parziale di una tragedia accaduta perché due brave guide decisero erroneamente di diventare imprenditori del settore turistico. L’alpinismo è una cosa, il turismo è un’altra».
Ma il regista non omette «la commercializzazione della montagna, che fu avviata negli anni 90». Infatti tra quelle vittime ci sono falegnami e postini, che pagarono una piccola fortuna (65 mila dollari dell’epoca) pur di realizzare un sogno impossibile. C’è di mezzo l’ambizione, la competizione, la fragilità umana, dunque la quarta parola chiave del film è «metafora». Jake Gyllenhaal: «Ho parlato con i figli di Scott Fischer, il capo della seconda spedizione, che morì. Erano preoccupati del ritratto che avrei dato del padre, una persona spensierata e divertente». Lo avevamo lasciato 10 anni fa al Lido a pascolare le pecore, violando il tabù del west, alle prese con il cow-boy omosessuale di poche parole e molta solitudine, assieme al compianto Heath Ledger. I segreti di Brokeback Mountain lanciò Jake Gyllenhaal, il film di Ang Lee che vinse il Leone d’oro a Venezia e l’Oscar: «La mia vera storia d’attore è cominciata qui, sono felice e non sono parole di circostanza».
In un’operazione del genere, girata tra Nepal e Dolomiti nostrane (con scene simulate a Cinecittà), è inevitabile arrampicarsi sull’aneddotica dei casi di pericolo. Li ricorda il regista, che non è «un grande amante della montagna». È un viaggio intorno all’uomo: «Abbiamo combinato una storia intima e esistenziale, all’epica dei blockbuster di Hollywood». Altitudini e attitudini. Ma dopo la partenza bruciante molto più di tre metri sopra il cielo delle due ultime edizioni (la missione spaziale di Gravity e le ali di Birdman), per i palati cinefili è un’apertura troppo tradizionale. Respirare e applaudire, quando si è alla quota di crociera di un Boeing, non è facile.