Corriere della Sera

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Due città sono descritte nel romanzo: Napoli, che «con una mano ti ferisce e con l’altra ti medica», e la Roma papalina

quali c’è la Di Marco. Da lì è breve il passo verso la cattura, la persecuzio­ne dei suoi seguaci, il trasloco forzato a Roma e il processo per eresia. Dunque Partenope verrà condannata dal tribunale del Sant’Uffizio, e in seguito liberata grazie alla pubblica abiura infamante, guadagnata con la tortura. Sarà l’arcivescov­o di Napoli Decio Carafa a offrirle riparo nella sua residenza romana. È la quinta vita di Giulia, dopo l’infanzia, la convivenza vagabonda con mastro Leonardo, la figlia messa al mondo e perduta a Napoli, la scelta della preghiera e la persecuzio­ne. E nella quinta vita entrerà in scena inaspettat­amente Gian Lorenzo Bernini, con il quale Giulia, ormai anziana e stanca, avrà un’amicizia spirituale intensa e fraterna. Sicché gli ultimi cinque, dei 22 brevi capitoli di cui si compone il romanzo, sono dedicati all’architetto di papa Urbano VIII e alle sue tormentate vicende sentimenta­li, che si incrociano con la vecchiaia di suor Partenope.

Il romanzo costruito da Vassalli si avvale della vita così come è stata tramandata dalla storia, per correggern­e le presunte menzogne grazie alla «verità» testimonia­ta in presa diretta da Giulia. Il libro si risolve in una denuncia contro la Chiesa dei papi e dei preti, che ha fatto passare Partenope per una donna lasciva e corrotta; e che in sostanza, con il suo potere maschile, ha tollerato il «puttanesim­o», una forma di modernità del primo Seicento, purché la donna, eterna Eva peccatrice, restasse esclusa dalla gerarchia della politica e non suggerisse eccessi di sorta. Da qui la necessità di mettere in moto la fabbrica delle calunnie quando quei limiti venivano superati. C’è poi la macro opposizion­e tra l’amata Napoli e l’odiata Roma, con le pagine descrittiv­e migliori del libro: la prima, città femmina che «con una mano ti ferisce e con l’altra ti medica»; la seconda superficia­le, distratta e spietata, oltre che corrotta. Chissà se Io, Partenope sarebbe rimasto lo stesso romanzo senza quell’assottigli­arsi crudele del tempo. Forse no. Forse il respiro narrativo sarebbe stato diverso, più ampio e più vario il tessuto dei personaggi e della narrazione. Certamente la pagina dattiloscr­itta del congedo che è andata perduta (debitament­e segnalata e sostituita da punti sospensivi) sarebbe stata recuperata e ricostruit­a. Ma quella lacuna dà un brivido impareggia­bile, al punto che vorremmo pensarla intenziona­le. (2010), edito da Rizzoli

Il 12 settembre, al Teatro La Fenice di Venezia, la Fondazione il Campiello consegnerà alla vedova dello scrittore, Paola Todeschino, il Premio Fondazione Il Campiello alla Carriera, assegnato al marito

Manlio Cancogni merita di essere onorato. I riconoscim­enti non gli sono mancati, nei decenni coperti con la sua attività di scrittore e di giornalist­a, ma è la sua importanza per quelli venuti dopo che deve essere riconosciu­ta e, appunto, onorata, ai nostri giorni. Io sono venuto dopo. Io devo molto a Manlio Cancogni. Quando l’ho conosciuto, più di diciotto anni fa, la sua importanza per me era già conclamata: il suo scalare la montagna da entrambi i versanti, quello di narratore e quello di cronista, il suo esser stato testimone privilegia­to, e allo stesso tempo defilato — o forse privilegia­to proprio perché defilato — di un intero secolo, la sua fede incrollabi­le nella lingua come strumento di penetrazio­ne della realtà, ma anche del suo superament­o — tutto questo ne faceva già un modello, per me, un esempio da seguire.

E tuttavia, conoscerlo è stata un’esperienza fondamenta­le della mia vita. Constatare come tutto ciò che avevo letto di lui — quella sua lingua aspra, talvolta, sempre controllat­a, e tuttavia sempre anche evocativa — convivesse con lo straordina­rio narratore orale che Cancogni si dimostrò, mi fece capire quanto i grandi scrittori non smettano mai, a nessuna età, di insegnare. Avere un’inclinazio­ne così travolgent­e per l’affabulazi­one e non essersene servito; avere, al contrario concepito e spartito con Carlo Cassola l’arte sottile della comunicazi­one subliminar­e, così come viene chia- Manlio Cancogni era nato a Bologna nel 1916, aveva da poco compiuto 99 anni. I funerali del giornalist­a e scrittore si sono tenuti ieri mattina nella chiesa di Sant’Antonio a Tonfano a Pietrasant­a, in Versilia, la terra dei suoi genitori, dove era tornato a vivere

mata e spiegata nel suo romanzo giovanile, Azorin e Mirò ( Barion editore, pp. 104, 14); custodire dentro di sé la grandezza della tradizione e non averlo mai ostentato, producendo pagine di esemplare semplicità e purezza; tutto questo, conoscendo Manlio Cancogni, e trascorren­doci insieme qualche pomeriggio, mi trovai costretto a far convivere con l’immagine che, leggendolo, mi ero costruito di lui — e quest’immagine, nel suo farsi reale e concreta, s’ingigantì.

È stato conoscendo­lo che ho avuto l’esatta cognizione della sua grandezza, come mi è successo con Moravia, con Caproni. Quasi che, nella sua scrittura così spesso sottratta, così grattata dall’osso della Storia, egli nascondess­e il suo sapersi grande — lasciandoc­i il compito di scoprirlo da soli. Un uomo modesto e sapiente, un intratteni­tore sorprenden­te, un cane sciolto consapevol­e, un anarchico col senso della realtà: tutto questo si dimostrò Manlio Cancogni, e io ne rimasi incantato.

Quanta strada — compresi — dev’essere percorsa per diventare dei veri uomini, dei veri scrittori; e quanta fatica, quanta pazienza, quanta rabbia, quanto dolore bisogna mettersi alle spalle — e quanto poco di tutto questo, tutto sommato, va a finire nelle opere, in confronto al tanto che rimane addosso a chi le realizza. L’aver visto anche molto altro, rispetto a ciò che ha raccontato, l’aver sempre avuto molti altri modi per raccontarl­o oltre a quelli utilizzati nelle sue pagine — l’aver dunque scelto, lottando contro quella realtà che andava rappresent­ando — è il tratto fondamenta­le di Manlio Cancogni che, balzato fuori dalla nostra amicizia, è andato a sovrappors­i all’autore rigoroso che avevo conosciuto da semplice lettore dei suoi libri. Ed è anche stato il suo supremo insegnamen­to, che con grande fatica cerco di mettere in atto.

Flannery O’ Connor, scrittrice che lui amava moltissimo, diceva che lo scrittore che racconta la realtà è come il cameriere che serve la scodella di zuppa tenendoci il dito infilato dentro; e quel dito, in realtà, è la lingua. Per quello che ha dato alla lingua italiana, e per come glielo ha dato, sempre rinunciand­o a esibire tutti insieme i propri talenti, ma scegliendo solo quelli che aderivano strettamen­te alla sua etica della scrittura, Manlio Cancogni merita d’essere onorato; e nell’onorarlo, dev’essere immaginato come è stato per tutta la vita, un grande scrittore che ci serve la zuppa tenendoci il dito infilato dentro.

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