L’ORO BIFRONTE
SIMBOLO DI EQUILIBRIO E BELLEZZA MA ANCHE CREATORE DI PROFITTO IL MATERIALE CHE CAMBIÒ L’EUROPA
L’appuntamento Si apre il 5 VicenzaOro che quest’anno ruota attorno al tema dell’alchimia con creatività e sperimentazione. Uno storico del Medioevo spiega come quell’«azzardo» convisse con un’altra rivoluzione nata a Firenze: l’economia del fiorino
C’è qualcosa che accomuna alchimisti e mercanti tra XII e XIII secolo: la febbre dell’oro. Certo, non allo stesso modo. Da una parte c’è l’oro come metafora della bellezza e dell’equilibrio, creato da un’arte capace di «unire la Terra al Cielo e mettere in contatto il mondo interiore con le forze del mondo superiore», secondo la celebre espressione di Pico della Mirandola. Dall’altra c’è l’oro come elemento del profitto, il moltiplicatore che permette di costruire la ricchezza con la ricchezza: l’elemento fondante di una società che muove ora i suoi primi passi, che si regge su una nuova idea che ammalia. L’idea del mercato e del capitale.
Tuttavia, qualche analogia tra i due universi c’è. Innanzitutto di mentalità, di un pensiero, comunque, innovatore. Vedere insieme il maestro e l’apprendista, lavorare indaffarati al riverbero del crogiolo, non rimanda soltanto la mente a pratiche occulte o a derive esoteriche ma alla sperimentazione che, per la prima volta, emerge, sebbene in maniera spesso oscura, come strumento della conoscenza. D’altronde, che cos’è l’alchimia, se non una scienza della materia, una scienza del fare e dell’operare? E il mondo dei mercanti, non è, in prima battuta, un universo che mescola insieme intraprendenza, intuito, informazioni, saperi, conoscenza?
L’altro elemento di analogia è che i nostri due mondi attingono allo stesso bacino, che è quello della grande civiltà musulmana. Non c’è niente da fare e bisogna constatarlo: il mondo occidentale di XI, XII, XIII secolo è in marcia, ma ancora sottosviluppato nei confronti della grande civiltà urbana che va da Baghdad a Granada e forma una grande koiné culturale e un’economia-mondo che si sviluppa dall’Oceano Indiano a quello Atlantico.
Tra le discipline che l’Islam aveva ereditato dalla tarda antichità greca c’è l’alchimia. Con tante nuove sfumature e modifiche, con nuovi innesti indiani e persiani. Che dal XII secolo sbarcano in Europa. Il fine: trasmutare e invertire i processi naturali. Permettere all’uomo di mutare il metallo vile in oro. O di ottenere l’elisir di lunga vita. Tutto sulla base di un vocabolario proto-scientifico calato dalla tradizione musulmana, con termini per noi comuni come amalgama, alcali, nafta, alcol, elisir e la stessa parola alchimia. Ci riuscirono gli alchimisti a rivoluzionare il mondo? Prendendo alla lettera la ricerca alchemica, scrive Michela Pereira, «si deve concludere con la constatazione del suo fallimento, perché né l’oro artificiale né l’elisir dell’eterna giovinezza sono stati mai prodotti». Ma è stato creato altro: un bagaglio di conoscenze e di tecniche che con- tribuirono alla futura sperimentazione chimica.
Andò molto meglio ai mercanti. Che l’oro non lo seppero trasmutare, ma furono abilissimi a ottenerlo attraverso un’innovazione che ha avuto un discreto successo: il Mercato. All’epoca l’oro si produceva specialmente in Africa. Il cuore della produzione era il Sudan dell’impero del Malì. Da lì mille mani lo manipolavano: cercatori d’oro, cammellieri tuareg, mercanti mandingo, commercianti dei porti del Mediterraneo africano, dove la corrente si interrompeva. Gli operatori italiani, specialmente toscani e liguri, intercettano questo flusso. E vi si immettono, coi loro prodotti: armi, lane, tessili in lino ecc. E hanno successo, creando uno sbocco mediterraneo che arriva fino ai porti di Pisa, di Genova, di Marsiglia ecc. e da qui in tutto l’Occidente. Fino ad arrivare a una città che è l’emblema stessa della rivoluzione commerciale: Firenze. Dove nel 1252, per la prima volta dopo secoli e secoli in Europa, si riprendono a coniare monete d’oro. E nasce il fiorino, il «gold standard» del medioevo. Che ebbe così tanti imitatori che alla fine del Quattrocento se ne contarono 61!
Una bella storia, quella della febbre dell’oro medievale, vissuta agli antipodi tra due modi diversi di sognarla: di chi tentò di sperimentare la Creazione, sperando di fare di sé un novello demiurgo, senza purtroppo mai riuscirci; e di chi, più prosaicamente, immaginò che tutto quell’oro africano che passava fra le sue mani, avrebbe un giorno formato il calcestruzzo della repubblica internazionale del denaro, modificando una volta e per tutte gli assetti dell’economia europea.