Una foto può cambiarci
È giusto pubblicare una foto tanto drammatica, come quella di Aylan, il bimbo in fuga da Kobane trovato morto sulla spiaggia in Turchia? Per il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione parlamentare Diritti umani, «in questo caso la scelta è stata giusta». A differenza di altre immagini di morte, spiega, «non suscita morbosità ma compassione. Alla lettera: “com-passione”, ovvero patire anno pianto un po’, poi si sono abituati. A tutto si abitua quel vigliacco che è l’uomo». La frase di Dostoevskij, citata ieri dalla Ong Actionaid è brutale e realista. In un mondo fatto di immagini che scorrono veloci, tutto passa e va. Anche il corpicino di un bimbo che sembra dormire a faccia in giù sulla spiaggia. E invece non respira. A volte, però, basta una foto a cambiare la percezione degli eventi, a vincere l’assuefazione. Un simbolo che racchiude la tragedia di un’epoca e accende, finalmente, l’empatia. Fino a farci chiedere, «davvero non è un nostro problema?». Quella di ieri era una foto fra tante. I nostri taccuini di reporter dalle prime linee di questa crisi migratoria sono pieni di dolore, degli occhi smarriti di quei «piccoli» che non possono permettersi troppi sogni. Bambini e ragazzi che camminano scalzi nelle tendopoli del Libano, che piangono mentre vengono passati di mano da una barca all’altra, che urlano dietro il filo spinato ungherese, che vagano soli e malvestiti nei campi per minori in Sicilia. O muoiono, nel Mare Nostrum. Non sono numeri. Vorremmo — dobbiamo — dare un volto e un nome a ognuno di loro, per farli tornare «persone» agli occhi di tutti. Degni di vivere, e non sotto le bombe di Assad o la ferocia dell’Isis.