Corriere della Sera

Una foto può cambiarci

- Di Sara Gandolfi

È giusto pubblicare una foto tanto drammatica, come quella di Aylan, il bimbo in fuga da Kobane trovato morto sulla spiaggia in Turchia? Per il senatore Luigi Manconi, presidente della Commission­e parlamenta­re Diritti umani, «in questo caso la scelta è stata giusta». A differenza di altre immagini di morte, spiega, «non suscita morbosità ma compassion­e. Alla lettera: “com-passione”, ovvero patire anno pianto un po’, poi si sono abituati. A tutto si abitua quel vigliacco che è l’uomo». La frase di Dostoevski­j, citata ieri dalla Ong Actionaid è brutale e realista. In un mondo fatto di immagini che scorrono veloci, tutto passa e va. Anche il corpicino di un bimbo che sembra dormire a faccia in giù sulla spiaggia. E invece non respira. A volte, però, basta una foto a cambiare la percezione degli eventi, a vincere l’assuefazio­ne. Un simbolo che racchiude la tragedia di un’epoca e accende, finalmente, l’empatia. Fino a farci chiedere, «davvero non è un nostro problema?». Quella di ieri era una foto fra tante. I nostri taccuini di reporter dalle prime linee di questa crisi migratoria sono pieni di dolore, degli occhi smarriti di quei «piccoli» che non possono permetters­i troppi sogni. Bambini e ragazzi che camminano scalzi nelle tendopoli del Libano, che piangono mentre vengono passati di mano da una barca all’altra, che urlano dietro il filo spinato ungherese, che vagano soli e malvestiti nei campi per minori in Sicilia. O muoiono, nel Mare Nostrum. Non sono numeri. Vorremmo — dobbiamo — dare un volto e un nome a ognuno di loro, per farli tornare «persone» agli occhi di tutti. Degni di vivere, e non sotto le bombe di Assad o la ferocia dell’Isis.

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