Papà Robert e zio John
Kennedy, la sua famiglia, che cosa ricorda? «Papà Robert e mamma Ethel non separavano mai il lavoro dalla vita quotidiana, dalla famiglia...così in casa c’erano sempre attivisti per i diritti umani, un andare e venire di persone impegnate nelle battaglie di mio padre». Che madre era, Ethel? «Decisamente diversa dalle altre, non ricordo mi abbia mai chiesto se a scuola avevo preso un «A» (un bel voto, ndr.), piuttosto mi interrogava se avessi fatto qualche cosa di utile per la comunità, per i diritti umani...e il condizionamento per me era così forte che, persino quando mi allacciavo le scarpe, cercavo di non fare torti a un piede, rispetto all’altro. Così se infilavo la sinistra, allacciavo le stringhe prima a destra. Sarei stata equanime, come tutti si aspettavano». E il primo ricordo di suo padre? «Risale a quando era Attorney general, Procuratore generale, in piena battaglia per i diritti civili americani».
Kerry Kennedy — capelli biondi, abito nero con grafismi blu e infradito — è la settima degli undici figli di Robert ed Ethel Kennedy. Settima di undici figli rimasti senza un padre dopo l’assassinio, nel giugno 1968, del senatore Robert, fratello di John Fitzgerald Kennedy (il presidente degli Stati Uniti ucciso a Dallas nel 1963). Robert, invece, fu colpito a morte all’Hotel Ambassador a Los Angeles: aveva vinto le Primarie in California e tutto, in quel 1968, faceva presagire che sarebbe arrivato alla Casa Bianca. Aveva 42 anni.
Quando parla della famiglia — di papà Robert e di zio John — in quei suoi occhi che sembrano guardarti dentro l’anima, come quelli di tutti i Kennedy, scorre il film della memoria. Una memoria che è collettiva, storica. Ma per lei resta, come è naturale, un ricordo molto personale. Una responsabilità chiamarsi Kennedy? «È un onore, e lo faccio con gioia con il Robert F. Kennedy Human Rights Center che si batte per la tutela dei diritti umani, con l’aiuto di professionisti come Frank La Rue che guida il braccio europeo del Robert F. Kennedy Human Rights a Firenze, e dal 2008 monitora per conto dell’Onu sul rispetto dei diritti umani». Al tempo di suo padre, il dibattito riguardava i diritti della popolazione di colore. Oggi, 2015, che cosa teme di più? «L’odio. Quello dei Talebani in Afghanistan, di Boko Haram in Nigeria, dei Janjaweed in Sud Sudan. E l’emergere, specie in Nord Europa, dei partiti neo nazisti. Per questo mi sta a cuore il futuro del giornalismo investigativo, essenziale per la tutela dei diritti umani. Poi bisogna insegnare ai ragazzi a prendersi delle responsabilità personali». Già, è il progetto «Speak truth to power». «Un libro e il sogno di educare al rispetto dei diritti umani, alla libertà di espressione», spiega Kennedy alla quale il principe Alberto di Monaco ha teso la mano per aiutarla a organizzare il primo «I Defend Gala»: nuova iniziativa per sostenere i progetti di sostenibilità sociale della Fondazione intitolata a Robert Kennedy.
La Camelot dei Kennedy che incontra quella dei Grimaldi. Il figlio di Grace e del principe Ranieri a fianco delle battaglie della figlia di Robert Kennedy. Senza contare che tra i principi di Monaco e la Casa Bianca di John F. Kennedy, tra il piccolo regno e la superpotenza grazie proprio a una Princesse nata americana, il legame fu intenso: Grace e Ranieri pranzarono alla Casa