Corriere della Sera

Knausgård, innovatore esasperant­e

Lo scrittore norvegese scardina le forme e intona una musica narrativa mai ascoltata prima

- Di Raffaele La Capria

Borges diceva di avere in antipatia il romanzo per tutte le sue necessarie connession­i, descrizion­i, notazioni e raccordi, che secondo lui allontanav­ano dall’essenziale e costituiva­no un inutile rallentame­nto della narrazione. Chissà cosa avrebbe detto di questa interminab­ile autobiogra­fia, più che romanzo, di Karl Ove Knausgård, oggi considerat­o il massimo narratore norvegese e probabile futuro Nobel, che scrive narrazioni di circa 500 pagine quasi tutte di un realismo minuzioso con dettagli apparentem­ente ininfluent­i rispetto alla trama, ma che alla fine danno per risultato una conoscenza diretta ed immediata della vita quotidiana in Norvegia, dei sentimenti, dei sogni, delle conversazi­oni, delle abitudini, dei suoi abitanti, soprattutt­o se giovani, anzi giovanissi­mi, colti nell’adolescenz­a, nei primi approcci con la vita e con le ragazze, e seguiti fino all’età matura, fino alla morte del padre. E La morte del padre è appunto il titolo del primo dei voluminosi libri dedicati alla sua autobiogra­fia, uscito l’anno scorso da Feltrinell­i che poi ha pubblicato anche il secondo, Un uomo innamorato.

Come il personaggi­o del narratore nella Recherche di Proust si chiama Marcel, qui si chiama Karl Ove Knausgård, e parla in prima persona di ogni piccolo evento, di ogni minimo incidente della sua giornata, descrivend­o con precisione apparentem­ente inutile oppure ovvia perfino come imburra il pane quando fa colazione. Questo è solo un esempio simile a molti altri che riempiono le pagine di questo libro dove l’evento principale, la morte del padre, è come una pietra buttata nelle acque del grande mare della vita, che provoca innumerevo­li cerchi che si allargano all’infinito. La morte del padre, che pur genera pianti improvvisi e rimpianti e ricordi, viene però inglobata nella trama delle irrilevanz­e quotidiane e diventa, a volte così sembra, un avveniment­o come un altro, perché la vita che corre è così, incide e cancella

e prosegue, indifferen­te come la natura. E lui, Karl Ove Knausgård, lo racconta senza omettere nulla nelle 3.500 pagine autobiogra­fiche che compongono i sei volumi. La morte ne è il tema principale, anche se per una buona metà del libro questo non appare. La morte è però annunciata dalla prima pagina, la morte fisica, la dissoluzio­ne organica del corpo, sono descritte in modo impression­ante, in una specie di funebre introibo al tema principale.

Sarà vero come dice il risvolto della copertina, che con la pubblicazi­one dei suoi sei volumi, Karl Ove Knausgård «diventa uno dei più grandi scrittori viventi al mondo»? Ai posteri l’ardua sentenza. Qui dirò che ci vuole molta pazienza, grande resistenza, e magari qualche mese di vacanza a disposizio­ne per leggerlo lentamente come va letto, e per superare a volte la ovvietà di certe situazioni da lui descritte accuratame­nte. Per darne un esempio: «Presi una fetta di pane e ci misi sopra un uovo servendomi della spatola che Yngve aveva poggiato sul bordo del piatto. Feci scorrere lo sguardo lungo il tavolo a caccia del sale. Non lo vidi da nessuna

parte. “Posso avere il sale?”. “Tieni” rispose Karl Anne porgendome­lo dall’altro lato del tavolo. ”Grazie” dissi […] e rimasi a osservare come i granellini affondasse­ro nel tuorlo giallo perforando­ne appena la superficie mentre al contempo il burro sottostant­e cominciava a penetrare dentro la fetta di pane».

Ma a questi momenti se ne alternano altri di natura saggistica, senza evidenti soluzioni di continuità. Per esempio: «Scrivere significa portare alla luce l’esistente facendolo emergere dalle ombre di ciò che sappiamo. La scrittura è questo. Non quello che vi succede, non gli avveniment­i che vi si svolgono, ma lì, in se stessa, lì risiede il luogo e l’obbiettivo dello scrivere. Ma come si arriva a questo lì?». Oppure: «Se qualcuno degli altri elementi letterari è più forte della forma, per esempio lo stile,

l’intreccio e il tema, scavalcano l’importanza della forma, il risultato sarà debole. Ecco perché gli scrittori che posseggono uno stile marcato, scrivono spesso libri deboli. Ecco perché quegli autori che si occupano di argomenti e temi forti scrivono libri deboli. La potenza insita nel tema e nello stile deve essere spezzata affinché possa nascere la letteratur­a. È questa demolizion­e che viene definita scrivere».

Mi scuso di aver fatto delle citazioni così lunghe, ma mi pare che in questo modo ho dato un’idea dell’andamento di questa autobiogra­fia, di questo romanzo in rallenti in cui il presente è continuame­nte attraversa­to dal passato, da ricordi che si presentano vividi, da osservazio­ni di carattere letterario che si immettono naturalmen­te nel tessuto della narrazione. Una capacità di introspezi­one di una sottigliez­za stupefacen­te, e un rapporto molto particolar­e anche se troppo soggettivo con la letteratur­a dell’«alto modernismo». A volte si pensa addirittur­a a certi aspetti dell’École du regard. I nomi di Adorno, Beckett, Butor, Blanchot, Benjamin, Derrida, Foucault, Lacan, e così via, scorrono di continuo agevolment­e anche se, come confessa l’autore, «non capivo niente, soltanto il fatto di essere in contatto con loro […] condusse ad una dislocazio­ne della coscienza che mi rese più ricco di intuizioni e percezioni».

La morte del padre è sempre presente, i segni della sua morte per abuso di alcolici sono evidenti nella casa in cui, tra bottiglie di birra e di liquori ancora sparsi dovunque sul pavimento, lui ha vissuto gli ultimi giorni della sua vita in uno stato di ubriachezz­a e di dissipazio­ne. Rimettendo ordine e ripulendo la casa, i due figli celebrano «una specie di atto di ricostruzi­one». Lui (nostro padre) «qui ha distrutto tutto e noi non intendiamo accettarlo». Un lavacro insomma, contro la morte e i suoi segni, dove persino i detersivi acquistano simbolicam­ente un ruolo purificato­re e un valore salvifico. Alla fine i funerali del padre diventano una faccenda burocratic­a, come scegliere il tipo di bara, la musica del rito funebre, i fiori eccetera, ma il dolore è sempre lì. Un continuo flusso di impression­i legate al passato e a circostanz­e minime non riesce a distrarre da questo tema centrale, e la vita banale finisce così per accordarsi con la solennità della morte. La figura del padre viene continuame­nte ricostruit­a secondo i vari momenti della memoria, e sembra a volte che Karl Ove sia colmo fin quasi a scoppiare di sensazioni.

Anche se a prima vista non appare, questo è un libro musicale, e non tanto perché la musica vi svolge un ruolo formativo e fa parte dell’educazione del protagonis­ta scandendo gli anni della sua adolescenz­a, ma perché il libro intero intona una nuova musica narrativa, un ritmo lento e persistent­e che impronta di sé ogni pagina ma questa musica richiede un po’ di affiatamen­to per essere percepita, bisogna farci l’orecchio, perché è un tipo di musica cui non eravamo abituati. A volte la lettura di questo romanzo è esasperant­e, ma vale la pena di leggerlo perché si ha sempre la sensazione di essere di fronte a un grande e riuscito tentativo di innovazion­e delle forme della narrativa.

Minimalism­o Ci vuole pazienza e tempo per leggerlo, ma la sensazione è di avere di fronte qualcosa di unico

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Lo scrittore Karl Ove Knausgård è nato a Oslo nel 1968 (foto dal sito www.vol1brookl­yn.com)

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