Knausgård, innovatore esasperante
Lo scrittore norvegese scardina le forme e intona una musica narrativa mai ascoltata prima
Borges diceva di avere in antipatia il romanzo per tutte le sue necessarie connessioni, descrizioni, notazioni e raccordi, che secondo lui allontanavano dall’essenziale e costituivano un inutile rallentamento della narrazione. Chissà cosa avrebbe detto di questa interminabile autobiografia, più che romanzo, di Karl Ove Knausgård, oggi considerato il massimo narratore norvegese e probabile futuro Nobel, che scrive narrazioni di circa 500 pagine quasi tutte di un realismo minuzioso con dettagli apparentemente ininfluenti rispetto alla trama, ma che alla fine danno per risultato una conoscenza diretta ed immediata della vita quotidiana in Norvegia, dei sentimenti, dei sogni, delle conversazioni, delle abitudini, dei suoi abitanti, soprattutto se giovani, anzi giovanissimi, colti nell’adolescenza, nei primi approcci con la vita e con le ragazze, e seguiti fino all’età matura, fino alla morte del padre. E La morte del padre è appunto il titolo del primo dei voluminosi libri dedicati alla sua autobiografia, uscito l’anno scorso da Feltrinelli che poi ha pubblicato anche il secondo, Un uomo innamorato.
Come il personaggio del narratore nella Recherche di Proust si chiama Marcel, qui si chiama Karl Ove Knausgård, e parla in prima persona di ogni piccolo evento, di ogni minimo incidente della sua giornata, descrivendo con precisione apparentemente inutile oppure ovvia perfino come imburra il pane quando fa colazione. Questo è solo un esempio simile a molti altri che riempiono le pagine di questo libro dove l’evento principale, la morte del padre, è come una pietra buttata nelle acque del grande mare della vita, che provoca innumerevoli cerchi che si allargano all’infinito. La morte del padre, che pur genera pianti improvvisi e rimpianti e ricordi, viene però inglobata nella trama delle irrilevanze quotidiane e diventa, a volte così sembra, un avvenimento come un altro, perché la vita che corre è così, incide e cancella
e prosegue, indifferente come la natura. E lui, Karl Ove Knausgård, lo racconta senza omettere nulla nelle 3.500 pagine autobiografiche che compongono i sei volumi. La morte ne è il tema principale, anche se per una buona metà del libro questo non appare. La morte è però annunciata dalla prima pagina, la morte fisica, la dissoluzione organica del corpo, sono descritte in modo impressionante, in una specie di funebre introibo al tema principale.
Sarà vero come dice il risvolto della copertina, che con la pubblicazione dei suoi sei volumi, Karl Ove Knausgård «diventa uno dei più grandi scrittori viventi al mondo»? Ai posteri l’ardua sentenza. Qui dirò che ci vuole molta pazienza, grande resistenza, e magari qualche mese di vacanza a disposizione per leggerlo lentamente come va letto, e per superare a volte la ovvietà di certe situazioni da lui descritte accuratamente. Per darne un esempio: «Presi una fetta di pane e ci misi sopra un uovo servendomi della spatola che Yngve aveva poggiato sul bordo del piatto. Feci scorrere lo sguardo lungo il tavolo a caccia del sale. Non lo vidi da nessuna
parte. “Posso avere il sale?”. “Tieni” rispose Karl Anne porgendomelo dall’altro lato del tavolo. ”Grazie” dissi […] e rimasi a osservare come i granellini affondassero nel tuorlo giallo perforandone appena la superficie mentre al contempo il burro sottostante cominciava a penetrare dentro la fetta di pane».
Ma a questi momenti se ne alternano altri di natura saggistica, senza evidenti soluzioni di continuità. Per esempio: «Scrivere significa portare alla luce l’esistente facendolo emergere dalle ombre di ciò che sappiamo. La scrittura è questo. Non quello che vi succede, non gli avvenimenti che vi si svolgono, ma lì, in se stessa, lì risiede il luogo e l’obbiettivo dello scrivere. Ma come si arriva a questo lì?». Oppure: «Se qualcuno degli altri elementi letterari è più forte della forma, per esempio lo stile,
l’intreccio e il tema, scavalcano l’importanza della forma, il risultato sarà debole. Ecco perché gli scrittori che posseggono uno stile marcato, scrivono spesso libri deboli. Ecco perché quegli autori che si occupano di argomenti e temi forti scrivono libri deboli. La potenza insita nel tema e nello stile deve essere spezzata affinché possa nascere la letteratura. È questa demolizione che viene definita scrivere».
Mi scuso di aver fatto delle citazioni così lunghe, ma mi pare che in questo modo ho dato un’idea dell’andamento di questa autobiografia, di questo romanzo in rallenti in cui il presente è continuamente attraversato dal passato, da ricordi che si presentano vividi, da osservazioni di carattere letterario che si immettono naturalmente nel tessuto della narrazione. Una capacità di introspezione di una sottigliezza stupefacente, e un rapporto molto particolare anche se troppo soggettivo con la letteratura dell’«alto modernismo». A volte si pensa addirittura a certi aspetti dell’École du regard. I nomi di Adorno, Beckett, Butor, Blanchot, Benjamin, Derrida, Foucault, Lacan, e così via, scorrono di continuo agevolmente anche se, come confessa l’autore, «non capivo niente, soltanto il fatto di essere in contatto con loro […] condusse ad una dislocazione della coscienza che mi rese più ricco di intuizioni e percezioni».
La morte del padre è sempre presente, i segni della sua morte per abuso di alcolici sono evidenti nella casa in cui, tra bottiglie di birra e di liquori ancora sparsi dovunque sul pavimento, lui ha vissuto gli ultimi giorni della sua vita in uno stato di ubriachezza e di dissipazione. Rimettendo ordine e ripulendo la casa, i due figli celebrano «una specie di atto di ricostruzione». Lui (nostro padre) «qui ha distrutto tutto e noi non intendiamo accettarlo». Un lavacro insomma, contro la morte e i suoi segni, dove persino i detersivi acquistano simbolicamente un ruolo purificatore e un valore salvifico. Alla fine i funerali del padre diventano una faccenda burocratica, come scegliere il tipo di bara, la musica del rito funebre, i fiori eccetera, ma il dolore è sempre lì. Un continuo flusso di impressioni legate al passato e a circostanze minime non riesce a distrarre da questo tema centrale, e la vita banale finisce così per accordarsi con la solennità della morte. La figura del padre viene continuamente ricostruita secondo i vari momenti della memoria, e sembra a volte che Karl Ove sia colmo fin quasi a scoppiare di sensazioni.
Anche se a prima vista non appare, questo è un libro musicale, e non tanto perché la musica vi svolge un ruolo formativo e fa parte dell’educazione del protagonista scandendo gli anni della sua adolescenza, ma perché il libro intero intona una nuova musica narrativa, un ritmo lento e persistente che impronta di sé ogni pagina ma questa musica richiede un po’ di affiatamento per essere percepita, bisogna farci l’orecchio, perché è un tipo di musica cui non eravamo abituati. A volte la lettura di questo romanzo è esasperante, ma vale la pena di leggerlo perché si ha sempre la sensazione di essere di fronte a un grande e riuscito tentativo di innovazione delle forme della narrativa.
Minimalismo Ci vuole pazienza e tempo per leggerlo, ma la sensazione è di avere di fronte qualcosa di unico