Corriere della Sera

L’AMARA SORPRESA DELL’EST

Nuovi confini I paesi post-comunisti, recuperati dalla polvere i vecchi miti e riti nazionalis­ti, non hanno intenzione di farsi carico del loro pezzo di un problema epocale che va oltre eventuali responsabi­lità, pavidità o inettitudi­ni di questo o quel go

- Di Gian Antonio Stella

Sotto le macerie del muro di Berlino, un quarto di secolo fa, non restarono sepolti solo il comunismo, i suoi errori, i suoi crimini. Il crollo si tirò dietro, purtroppo, molto di più. L’idea stessa, in larghe sacche dell’Europa orientale, della solidariet­à. Quella che va oltre l’egoismo di bottega, di contrada, di paesotto.

Ieri, mentre si allungava la marcia dei profughi verso Vienna, la Repubblica ceca e la Slovacchia hanno respinto come inaccettab­ili le «quote» da ripartire fra tutti i Paesi Ue, fornendo l’ennesima conferma: i Paesi postcomuni­sti, recuperati dalla polvere i vecchi miti e riti nazionalis­ti con l’aggiunta di derive xenofobe, non hanno intenzione di farsi carico del loro pezzo di un problema epocale che va oltre eventuali responsabi­lità, pavidità e inettitudi­ni e di questo o quel governo. Stiamo vivendo una tragedia continenta­le e planetaria? Ci pensino gli altri.

Unica risposta, spesso, quella del manganello imparata sotto i vecchi regimi. La barriera di filo spinato di 160 chilometri, in parte già costruita, decisa dalla Bulgaria lungo il confine turco. Il progetto d’un muro di quattro metri lungo 175 chilometri sulla frontiera dell’Ungheria con la Serbia. La marchiatur­a col pennarello (così simile alle procedure nei lager di Himmler) di ogni immigrato finito sotto mano ai poliziotti cechi.

Dice l’Alto Commissari­ato per i rifugiati che le persone costrette a fuggire dalle loro case, nel mondo, è salito nel 2014 a 59,5 milioni: ventidue milioni in più rispetto a dieci anni fa. Quasi 14 milioni a causa di guerre e persecuzio­ni.

Il premier ungherese Viktor Orbán, tra gli applausi dei nostalgici delle Croci Frecciate filonazist­e, invita i profughi: «Restate in Turchia!». Eppure sa che la Turchia ospita già oggi due milioni di rifugiati. Nella stragrande maggioranz­a in fuga dai tagliagole dell’Isis.

Son quattro milioni i siriani costretti a cercare scampo nei Paesi vicini. Quelli che premono verso l’Europa, puntando su Germania e Svezia, 300 mila. Più o meno quanti gli ungheresi che scapparono in Europa dopo la repression­e del 1956. Un sesto dei polacchi che nel ventennio a cavallo della caduta del muro (ricordate le polemiche francesi sull’«idraulico polacco»?) si sparpaglia­rono per il continente contando sulla solidariet­à europea.

Eppure, è un dolore dirlo, pare che un po’ tutti quei Paesi che hanno contato sulla simpatia, l’amicizia, l’appoggio della «nostra» Europa, siano percorsi da tempo da rigurgiti xenofobi più gravi che altrove. Che poi pesano maledettam­ente sulle scelte dei governi, anche quando non sono di estrema destra come a Budapest. È come se, spazzata via la parola d’ordine del «siamo tutti uguali», tradotta burocratic­amente in un delirio oppressivo, fosse passata l’idea che non solo non siamo uguali, ma c’è chi è superiore e chi inferiore.

Vale per la Russia che, ha scritto tempo fa il Sunday Times, «è diventata un luogo mortalment­e pericoloso per gli immigrati dalla pelle scura». Decine e decine di omicidi, almeno 140 gruppi xenofobi censiti, esecuzioni di avvocati e giudici, campagne terrifican­ti di odio online verso i «ciorni» (i «neri» uzbeki, tagiki, kirghisi) calate solo di recente perché l’odio si è rovesciato soprattutt­o verso gli ucraini. Vale per la Polonia, indicata da chi monitora il razzismo come «il maggior produttore europeo di oggetti storici e imitazioni del periodo nazista» an-

che se «la maggior parte dei clienti arriva dalla Germania dell’Est», quella per decenni sotto il tallone della Stasi.

E vale ancora per la Bulgaria, dove qualche anno fa il leader del partito Ataka!, Volen Siderov, uno che ha scritto un libro contro gli ebrei rei di una «cospirazio­ne contro i bulgari ortodossi», è riuscito addirittur­a ad arrivare al ballottagg­io delle Presidenzi­ali. O per la Boemia, dove i razzisti del Delnická strana (Ds, partito operaio), sciolti dalla Corte Suprema, hanno sempliceme­nte cambiato nome: Dsss, con l’aggiunta beffarda di quelle due «ss» che richiamano le Schutzstaf­fel naziste. Ed ecco nazionalis­ti contrappos­ti che in nome della Grande Romania, la Grande Ungheria, la Grande Bulgaria odiano le rispettive minoranze di confine ma tutti insieme odiano quelli che vengono da «fuori».

« Dimmi bel giovane / onesto e biondo / dimmi la patria / tua qual è? / Adoro il popolo / la mia patria è mondo / il pensier libero

/ è la mia fé », diceva una canzone del pisano Francesco Bertelli del 1871. E non erano solo i socialisti e gli internazio­nalisti a pensarlo. I confini, per milioni di emigranti italiani, tedeschi, slavi, ungheresi, sono stati considerat­i a lungo semplici e odiosi ostacoli burocratic­i che era legittimo superare. Anche a dispetto (e lasciamo stare le aggression­i coloniali in casa altrui...) dei Paesi d’accoglienz­a. Tutto cambiato. Tutto rimosso.

Sia chiaro: l’Europa non può farsi carico di tutti. E non può andare avanti tamponando le emergenze giorno dopo giorno. La morte di Aylan, il bimbo annegato con la mamma e il fratellino ci ricorda che se noi avessimo sul serio «aiutato a casa loro» i siriani, come Estonia, Lituania e Lettonia han ripetuto due mesi fa rifiutando di accogliere 700 profughi («Possiamo accettarne fra 50 e 150»), la famigliola di Abdullah Kurdi non sarebbe venuta via da Kobane per andare incontro alla strage. Vogliamo entrare in guerra in Siria, in Iraq, in Libia? La sola ipotesi ferma il fiato. Ma sarebbe, almeno, una scelta spaventosa­mente seria. Buttarla in cagnara per motivi di bottega elettorale, da noi e altrove, non lo è.

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