Corriere della Sera

Quel tifo bipartisan in Aula per le elezioni nel 2018

- di Francesco Verderami

Il Parlamento è come un’unica curva da stadio dove si fa il tifo per un solo risultato: le elezioni nel 2018. Per quanto sventolino bandiere diverse e abbiano obiettivi diversi, tutti sono impegnati nell’intrapresa sotto l’ombrello protettivo delle riforme.

Basta vedere il rapporto tra Renzi e Berlusconi, mai così distanti nel linguaggio eppure mai così vicini negli interessi politici. Perché se il segretario del Pd vuole prolungare la sua permanenza a palazzo Chigi per vincere la sfida di governo, il leader di Forza Italia — che oggi sarebbe ineleggibi­le — non ha alcun motivo di sabotarlo: da venti anni lavora solo per se stesso, figurarsi se ora si mette al servizio di Salvini. Anche Bersani sta dentro questa paradossal­e e granitica alleanza, se — come dice il suo fedelissim­o Gotor — «le riforme che erano state il pretesto per far iniziare la legislatur­a sono diventate ora il pretesto per farla durare».

Il braccio di ferro al Senato sembrerebb­e dunque solo un gioco di Palazzo, se non fosse che il voto sugli equilibri costituzio­nali sarà determinan­te per gli assetti politici. E lo sarà ancor di più il successivo referendum, che di fatto s’incaricher­à di definire le alleanze tra partiti e dentro i partiti. Perciò sembra inevitabil­e un accordo nel Pd, perché se la minoranza dovesse distinguer­si in Parlamento, sarebbe poi chiamata a comportars­i allo stesso modo al referendum: a quel punto — dinnanzi a una diversa visione dello Stato — la scissione diverrebbe inevitabil­e. Come sembra inevitabil­e il voto contrario di Forza Italia, visto che Berlusconi tiene all’asse con la Lega, sebbene il centrista Lupi si auguri ancora che «altre forze di centrodest­ra convergano sulle riforme per ricostruir­e un fronte moderato».

Quello sarà il bivio, perciò ieri Alfano ha rimarcato la valenza dell’appuntamen­to, posticipat­o all’ottobre del prossimo anno. È vero che Renzi avrebbe preferito arrivarci in primavera, ma il ritardo è come un’assicurazi­one sulla vita per deputati e senatori, perché garantisce sulla durata della legislatur­a. Tutto insomma si tiene, mentre tutti si interrogan­o se il premier aprirà o meno alle modifiche sull’Italicum. Secondo il segretario dell’Udc Cesa, «il primo a volerle è proprio il signor Renzi», che in attesa del voto al Senato tiene appesi alleati e avversari: sul rimpasto di governo come sulle nomine nelle commission­i parlamenta­ri, se ne riparlerà a ottobre. Tattica che ricorda Berlusconi.

Sia chiaro, il premier è preoccupat­o per un eventuale passo falso a palazzo Madama sulle riforme, visto il mezzo milione di emendament­i presentato. Però fa mostra di essere «occupato» — così dice di sé — dalle questioni europee: «Ho l’ambizione di far cambiare certe idee a Bruxelles», tanto sull’immigrazio­ne quanto sull’economia. E se sul primo tema la Merkel è «finalmente arrivata sulle posizioni dell’Italia», sul secondo fa affidament­o sui dati dell’Istat che annunciano una crescita superiore alle stime, e confida che la stagione estiva abbia inciso sulla domanda interna grazie ai buoni risultati del turismo.

Così Renzi vorrebbe presentars­i a Bruxelles per ottenere il primo via libera a quel piano triennale che considera «ambizioso» e che parte con il taglio delle tasse sulla casa. Era scontato l’appoggio di Alfano, «l’abolizione di Imu e Tasi così come una politica a sostegno delle famiglie sono cose di centrodest­ra». Meno scontato è stato il modo in cui il premier ha incontrato a palazzo Chigi la delegazion­e di Ncd, e la pubblicità che è stata data al vertice: in altri tempi Renzi avrebbe avuto un attacco di orticaria, stavolta ha offerto un riconoscim­ento politico agli alleati.

Si vedrà se i centristi saranno con lui alle elezioni, oggi sono fondamenta­li per bilanciare la minoranza interna, alla quale non manca mai di dedicare un pensierino: «Per mesi mi hanno attaccato sul tesseramen­to, dicendo che era crollato perché avevo provocato la disaffezio­ne dei militanti. E l’altra sera questi geni l’hanno ripetuto alla festa dell’Unità proprio quando sono stati resi noti i dati del due per mille: 540 mila persone hanno versato al Pd 5,5 milioni di euro. Ne avevamo previsti a bilancio solo 200 mila. Magari i nostri non si tesserano ma ci danno i soldi».

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