Corriere della Sera

L’antica Atene non è un emporio

Imitare oggi il sorteggio per le cariche pubbliche? Nella polis i veri leader erano eletti

- Di Luciano Canfora

David van Reybrouck, classe 1971 — noto per una significat­iva monografia sui crimini del Belgio in Congo —, scolaro di storia antica a Lovanio nel 1989, ha scritto un libro, Contro le elezioni (Feltrinell­i), che propone, come già fece Ségolène Royal quando perse le presidenzi­ali francesi, di adottare, come rimedio alla degenerazi­one dei nostri sistemi politici, la pratica del sorteggio per il conferimen­to delle cariche politiche sul modello dell’Atene del V secolo a.C.

Questo libro — sostiene l’autore — è nato da tre «incidenti»: 1) il corso di storia greca del professor Herman Verdin; 2) una passeggiat­a sui Pirenei che portò l’autore a scoprire, nella bibliotech­ina di un albergo, il Contratto sociale di Rousseau; 3) uno scambio di email con un certo Terrill Bouricius, teorico appassiona­to del modello ateniese.

Sarebbe facile osservare che, del sistema ateniese, l’autore, Bouricius, e forse anche Ségolène, hanno un’idea a dir poco fanciulles­ca. Non solo perché ignorano l’ampia letteratur­a ateniese coeva — da Platone a Tucidide, a Isocrate, a Demostene — che in modo martellant­e descrive i difetti (la corruzione e l’incompeten­za in primis) di quel sistema, ma anche perché lascia in ombra un fatto capitale: che cioè le cariche decisive della città — i dieci strateghi, gli ipparchi e gli amministra­tori delle finanze — erano elettive, e inoltre, nella prassi, riservate a cittadini appartenen­ti alle classi più ricche. Pericle, Cleone, Nicia, Alcibiade detengono il potere effettivo perché lo conquistan­o con campagne elettorali. Non è comunque trascurabi­le ricordare che un male endemico del sistema ateniese fu l’assenteism­o e che quel sistema finì ingloriosa­mente, tra colpi di Stato e restringim­enti del diritto di cittadinan­za.

La perdita di una formazione storicisti­ca induce alla pratica di «pescare» random nel negozio dei sistemi politici.

Questo libro è però anche un sintomo a suo modo brillante. Mette insieme, nei primi due capitoli, i dati di fatto che dimostrano in modo inoppugnab­ile che il ciclo storico del sistema parlamenta­re-elettivo (in modo confusiona­rio definito da molti «democrazia») è giunto da tempo al capolinea. Il suo declino si è prodotto al venir meno dell’antagonist­a storico che lo ha fronteggia­to per gran parte del Novecento, il cosiddetto «socialismo reale». Van Reybrouck mette in fila molte delle tare che hanno portato alla eutanasia del sistema parlamenta­re-elettivo: apatia, assenteism­o, frustrazio­ne, sfiducia nei governanti, morte dei partiti politici, potere decrescent­e dei parlamenti (lui dice «impotenza di fronte alla Ue»), delegittim­azione crescente degli eletti, immobilism­o della macchina legislativ­a, macchinosi­tà delle procedure nel cambio di governo, asservimen­to dei media al potere, personale politico urlante e incompeten­te. E si potrebbe proseguire. Stupisce che l’autore non indichi, tra le cause di assenteism­o nelle elezioni politiche, la adozione di sistemi elettorali di tipo maggiorita­rio. I quali, calpestand­o il principio un uomo/un voto e costringen­do le forze politiche a rassomigli­arsi sempre più, spingono masse crescenti al non voto. Con felice battuta van Reybrouck scrive che — per segnalare l’esistenza di tale partito «invisibile» — bisognereb­be lasciare vuoto, in Parlamento, un quarto almeno dei seggi.

Una migliore informazio­ne storica avrebbe aiutato l’autore a scoprire che la critica nei confronti del sistema parlamenta­re elettorale non è una scoperta recente, ma ha accompagna­to tale sistema sin dal suo nascere e per tutta la sua esistenza. Né solo nelle forme letterarie brillanti di Swift in Inghilterr­a o di Balzac in Francia, ma, alla fine del XIX secolo, col sorgere della critica «elitistica» (Gaetano Mosca) e, tra le due guerre mondiali, con gli scritti di Otto Bauer sulla Crisi della democrazia. D’altra parte non esiste, in assoluto, «la miglior forma di governo». (Perciò non convince la frasetta attribuita a Churchill e ripetuta spesso come una litania: la «democrazia» è pessima, ma migliore di tutti gli altri sistemi). Che non esista «il sistema migliore» è dimostrato, tra l’altro, dal ciclico riproporsi ora dell’uno ora dell’altro. Lo aveva intuito il pensiero politico classico.

Ma oggi c’è una novità. Mentre nel resto del pianeta il sistema parlamenta­re-elettivo è sottoposto agli andirivien­i ciclici, nel «centro» (Ue, Usa) si è venuta affermando, e consolidan­do, dopo l’ultima convulsion­e ottonovece­ntesca (liberalism­o, fascismo, democrazie postbellic­he) la soluzione «elastica». I poteri effettivam­ente decisivi non sono più elettivi, né esposti all’arbitrio delle fluttuazio­ni elettorali, sono — bene al riparo (e con l’approvazio­ne abdicante dei poteri eletti!) — organismi burocratic­o-finanziari. Le elezioni sopravvivo­no, ma sono la periodica festosa, accanita, ginnastica per le «masse» (quelle ancora disposte a crederci). Caricatura grottesca delle grandi battaglie elettorali della risorta democrazia del dopoguerra. Con questa soluzione — che è anche l’effetto del subentrare, al comando, dell’inquinatis­simo capitale finanziari­o in luogo del capitale «produttivo» — sembra essersi posto un «Alt» al riproporsi del «ciclo». Quanto a lungo possa reggere questa geniale escogitazi­one non è dato prevedere. Forse però il meccanismo già mostra crepe: guerre costruite ed esportate, nuove schiavitù, crisi economica endemica, conseguent­i migrazioni di popoli fanno pensare che il «ciclo» può rimettersi in moto, ed in forme terrifican­ti. «Quasi nessuna repubblica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede» (Machiavell­i).

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