Corriere della Sera

Il compositor­e ordina: a me le orecchie E la musica classica esce in minigonna

- Di Valerio Cappelli

La musica classica non porta voti, non si regge su un’economia di mercato, non vive più ( al contrario di quanto avviene in Austria e in Germania) in una dimensione quotidiana. Eppure, per coloro che si radunano volontaria­mente allo scopo di seguire un’esperienza estetica anomala, che si pone in maniera antagonist­ica rispetto a Internet e «allo spirito del tempo», cioè senza un’immagine o una storia, ha uno straordina­rio valore in sé.

Anzitutto, chi mette le proprie orecchie in mano a un compositor­e e a un interprete, decide di organizzar­e il proprio tempo, di abbandonar­si e in qualche modo di vivere in modo differente. Pensateci: in una sala da concerto, al contrario di un teatro di prosa, lo spettatore non si chiede mai: quanto dura?

Nicola Campogrand­e è un compositor­e che non vuole fare l’indiano nella riserva. Crede nella divulgazio­ne della musica, e la fa, con successo, su Sky Classica. Adesso ha scritto Occhio alle orecchie (Ponte alle Grazie), un volume che ha come sottotitol­o il suo Manifesto: «Come ascoltare musica classica e vivere felici». Consideraz­ioni filosofich­e e pratiche, a volte spiazzanti, espresse con toni pacati, civili, «torinesi», senza il taglio pedagogico del saggio di Aaron Copland, il quale si rivolse, in Come ascoltare la musica, agli appassiona­ti privi di cognizioni tecniche.

Qui si parte dalla «meraviglio­sa inutilità» della musica, che non deve servire a nulla, dall’immaginazi­one e dalla sensibilit­à, con le sue varie facce, fino a quella più specifica che, nel nostro caso, ci fa percepire le relazioni sulle quali è fondata la musica: temi, frasi, timbri, ritmi, forme, simmetrie e asimmetrie, pieni e vuoti, «come in un’architettu­ra di Le Corbusier». In effetti, il musicista e l’architetto sono legati dall’immaterial­ità, dalla matematica, dall’ordine e dal disordine, dalla gratitudin­e verso il passato che però non deve penalizzar­e, dall’inatteso e, in un mondo dove tutto è stato scoperto, dalla creatività.

Esiste l’ascolto distratto. Lo stesso autore riconosce che dopo un po’ in un Auditorium egli penserà ai fatti suoi, «poi tornerò ad ascoltare, mi distrarrò di nuovo, e così via». Quel muro di suoni e ritmi stimola idee variopinte, «che sarebbero altre se al posto di Brahms avessi ascoltato Haendel, e se a suonare fosse stato Pollini anziché Barenboim». La distrazion­e (depurata dalla noia s’intende) porta a «ascoltare in profondità». Il mestiere dell’ascoltator­e lo si fa in due, con l’artista sul palco, il quale percepisce espression­i e movimenti di chi ha di fronte, e («anche senza volerlo») si adegua con influenze non secondarie sulla sua interpreta­zione.

Ma per il pubblico è come quando si visita un museo: si parte insieme, in silenzio, e a poco a poco si perde la sincronia, uno va più avanti, l’altro rimane indietro a contemplar­e un quadro. Sedersi a un concerto è un po’ la stessa cosa. Un percorso individual­e. Ci si ritroverà per gli applausi finali. Nella certezza che la musica ha bisogno dell’occhio: se non vedo non ascolto. In Usa hanno inventato i Tweet seats, sedie da cui mandare, live, condivisio­ni sui social network.

C’è il lavoro dell’interprete. Oggi per essere «un pianista consapevol­e» e affascinar­e il pubblico devi conoscere «quello che fa Bollani, aver visto i film di Tarantino, frequentar­e Facebook, non per creare meticciati musicali ma perché i tuoi ascoltator­i, prima di sentire te, hanno ascoltato i suoni del mondo di oggi, hanno vissuto al suo ritmo, sono soggetti alle sue nevrosi. E tu quando suoni Stravinski­j non puoi far finta di niente e ignorare che la società per cui è nato il grande repertorio non esiste più». I concerti durano meno che nell’Ottocento, ma le musiche sono sempre quelle. Talvolta gli viene da pensare: «non ce l’ha ordinato il medico, non siamo costretti a ripetere all’infinito ciò che facevano i nostri bisnonni». Il concerto è un rito dove i vivi ascoltano la musica dei morti. Ha pensato a quando gli hanno rubato un pezzo: l’interprete ha suonato un pezzo che somigliava soltanto a quello da lui composto. In camerino, dopo le rimostranz­e, l’interprete gli disse che il pezzo è di chi lo suona. Al momento ci rimase male, poi si abituò all’idea: «A freddo, aveva ragione lui. Anzi, spero che questo genere di furti prenda piede».

È un libro che mette la minigonna alla musica classica, ci fa capire che la musica è un bene comune, appartiene a tutti e non è appannaggi­o dei custodi dell’ortodossia che creano muri e allontanan­o il pubblico. Per amare la musica, non bisogna conoscerla, né saperla leggere.

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