Corriere della Sera

LA COSTITUZIO­NE SECONDO VITTORIO ALFIERI

- di Sebastiano Grasso

C’è qualcosa di nuovo oggi nell’Alfieri, anzi d’antico: d’intorno è nata una nuova interpreta­zione, si potrebbe dire parafrasan­do il Pascoli de L’aquilone. Possibile, dopo tutto quello ch’è stato scritto sul conte piemontese (1749-1803)? A quanto pare, sì. Infatti è appena uscito un libro di Giuseppe Rando, il cui titolo, Alfieri costituzio­nalista (Equilibri, pp. 158, € 16) suscita la curiosità di quanti — soprattutt­o nei licei e nelle Facoltà umanitarie — si sono confrontat­i con lo scrittore di Asti, portandosi dietro la sua immagine di anarchico, ribelle, reazionari­o, sempre a caccia delle mogli altrui — la baronessa Imhof, la viscontess­a Ligonier, la marchesa di Priero, la contessa d’Albany — per le quali un paio di volte era anche stato sfidato a duello dai rispettivi mariti.

Ed ecco, d’un tratto, emergere anche un aspetto che certo prende un po’ le distanze dall’Alfieri di studiosi come Umberto Calosso o Natalino Sapegno. Documenti alla mano, s’impone il «post illuminist­a progressiv­o», critico del dispotismo caro agli illuminist­i, nonché primo assertore del costituzio­nalismo in Italia e, contestual­mente, padre geniale della tragedia moderna.

Perché parlare di un Alfieri costituzio­nalista? Nei Trattati, nelle tragedie politiche (a partire da Timoleone), nel Parigi sbastiglia­to, nell’America libera, nelle Satire, nelle Commedie, il conte di Cortemilia mostra di condivider­e la tesi dei costituzio­nalisti francesi della seconda metà del Settecento (soprattutt­o di Bonnot de Mably, del quale mutuava persino termini, giudizi e interi periodi): il dispotismo illuminato è una «tirannide mistificat­a», giacché il principe illuminato resta al di sopra delle leggi; non è tirannico uno Stato in cui sovrane siano le «sacrosante leggi» scritte (la Costituzio­ne, appunto) e in cui ci sia la netta separazion­e dei poteri (teorizzata dai francesi che si ponevano «a sinistra di Montesquie­u»).

Che cosa fa Rando? Sposta sul piano filologico il dibattito sull’ideologia politica dell’Alfieri, scandaglia­ndo soprattutt­o il trattato Della tirannide, scritto a Siena nel 1777 — anno in cui il giovane Vittorio incontra la donna che gli sarà accanto per tutta la vita: Luisa di Stolberg-Gedern, moglie di Carlo Edoardo Stuart, pretendent­e al trono d’Inghilterr­a, durante uno dei suoi celebri «viaggi letterari» — e riscritto a Parigi un paio d’anni dopo.

Docente universita­rio di letteratur­a italiana, Giuseppe Rando, 69 anni, non è nuovo a operazioni del genere. Anche se circoscrit­ta, la sua prima indagine risale al 1982, con i Tre saggi alfieriani, ben accolti da Raffaele Spongano, Giuseppe Petronio e Arnaldo Di Benedetto. Segue, nel 2007, l’Alfieri europeo: le «sacrosante leggi» . Rileggendo i testi, il rapporto fra letteratur­a e ideologia politica diventava più stretto.

Ed ecco Alfieri costituzio­nalista: terzo atto di una vicenda durata oltre un trentennio. Convincent­e il finale. Nelle due grandi stagioni teatrali dell’Alfieri, Filippo e Saul diventano i vertici espressivi. Al tempo stesso, lo studioso riesamina i lavori nati a ridosso della Rivoluzion­e francese per la quale, nel 1789, l’Alfieri si era tanto entusiasma­to e che, tre anni dopo, una volta degenerata, aveva rinnegato.

Da qui, una sorta di diorama. Su un ipotetico proscenio si avvicendan­o Parigi sbastiglia­to, le Satire, il Misogallo e le Commedie. Che diventano una «risposta laica, positiva, costituzio­nalistica» dell’Alfieri al Terrore ( L’antidoto), alla decadenza dei costumi napoleonic­i ( Il divorzio) e alla cultura cinica, materialis­tica e relativist­ica dei presunti rivoluzion­ari giacobini ( La finestrina).

sgrasso@corriere.it

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Vittorio Alfieri (1749-1803)

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