Corriere della Sera

Troppi stranieri ok ma di italiani bravi non ne escono più

- Di Mario Sconcerti

Itanti giocatori stranieri in Italia sono un problema serio ma non sufficient­e a spiegare la crisi dei giocatori italiani. Credo sia tempo di cambiare la domanda: non più perché si scelgono tanti stranieri, ma perché in Italia da dieci anni non crescono più grandi giocatori? Dieci anni sono moltissimi in uno sport che ne ha solo cento. Non solo, ma l’Italia dagli anni Venti al Duemila ha sempre avuto generazion­i di giocatori molto forti. Da Baloncieri a Meazza, a Mazzola, a Rivera, Tardelli, Baggio fino a TottiDel Piero-Pirlo. Lì ci siamo fermati, ormai molto tempo fa. Per novant’anni abbiamo avuto grande continuità, un fuoriclass­e sostituiva l’altro, poi, improvvisa­mente più niente. Perché? Gli stranieri tolgono spazio, è certamente vero, ma a chi? Chi sono i sacrificat­i? Non si vedono, non ci sono, questo è il problema. Ci fossero li vedremmo in qualche squadra minore, magari in B o in C, ma li vedremmo. Chi gioca bene non resta fuori. Cosa si è fermato? Cosa è cambiato? Una soluzione è pensare sia solo un caso. Il caso del resto è fondamenta­le nella vita, può starci che ci maneggi per qualche anno e che tutto si risolva da solo, sempliceme­nte spingendo la ruota. Ma una soluzione più seria è cominciare a credere a un problema struttural­e, esistenzia­le. La nostra differenza nel calcio è sempre stata avere insieme le due caratteris­tiche delle grandi scuole mondiali, quella latinoamer­icana e quella nordeurope­a. Un po’ meno in tutto ma con un risultato eccellente in fondo alla mescolanza. La mia impression­e è che qualcosa si sia rotto in questa specie di ponte. Forse è stato il nostro dover pensare molto all’Europa, il vivere decisament­e in modo più occidental­e. Forse siamo diventati qualcosa di diverso che non conosciamo ancora. Il calcio non ha mai vissuto da solo, è cambiato sempre con la società che lo esprimeva. Oggi molto è cambiato intorno a noi, dentro di noi. Forse siamo una cosa diversa senza sapere esattament­e ancora cosa. Abbiamo cambiato abitudini di vivere, quindi anche di giocare. Abbiamo cambiato i nostri concetti di importanza e di speranza. Sinceramen­te non lo so. Ma ridurre questa crisi così lunga, così forte, così evidente, a un fatto aritmetico, significa non provare nemmeno a capirla e soprattutt­o non essere in grado di risolverla.

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