Corriere della Sera

DEBITI La difficile vita del Parmigiano In pegno alle banche per resistere

Maniacale attenzione alla qualità e passione artigianal­e mantengono vivo il mito di un formaggio conosciuto anche a New York e a Tokyo. Ma l’export rimane il piede d’argilla e le promesse degli ultimi anni non sono state mantenute. La strategia per l’onli

- di Massimo Sideri @massimosid­eri msideri@corriere.it

è una piccolissi­ma Borsa a Parma che si riunisce tutti i venerdì, puntuale, alle 11.30 del mattino. Non sono in molti a conoscerla, non perché sia segreta ma perché il prezzo che viene determinat­o dai 16 componenti che vengono dalla stessa Parma, da Reggio nell’Emilia, Bologna, Modena e Mantova non è quello dell’oro o del petrolio. Ma del Parmigiano Reggiano. Prezzo all’ingrosso, peraltro, che dunque interessa ai 50 mila che lavorano in questa economia di nicchia. È questo il paradosso del Parmigiano: prendete posto nei ristoranti di New York e Tokyo, chiedete del Parmigiano e sapranno di cosa parlate. Eppure un’economia che vale complessiv­amente 1,5 miliardi di euro — dunque, a conti fatti, non proprio noccioline — si muove ancora con ritmi pre-Internet, con modalità artigianal­i, con baruffe locali sulle decisioni strategich­e. Non c’è da speculare in Borsa sul Parmigiano, questo è chiaro. A guardare l’andamento dei prezzi all’ingrosso è soprattutt­o evidente che si tratta di un’economia sull’orlo di una crisi di nervi. Perenne. Costi alti e margini bassi. Premesse (buone) e promesse (disattese). Cibo e, curiosamen­te, debiti (per 300 milioni l’anno). I produttori devono aspettare 24 e 36 mesi per guadagnare un euro circa al chilogramm­o. La maniacale attenzione alla qualità e la passione artigianal­e mantengono vivo il mito del formaggio Reggiano. Come quelle dell’esperto «battitore» Mauro Fantuzzi che ausculta le forme come se si trattasse di verificare la delicata forza di un cuoricino in un bambino appena nato e che ci spiega come «il momento migliore per mangiarlo è appena tagliato in due con precisione chirurgica». Ma in queste terre si respira anche una sottile invidia per il fratello «minore», il Grana Padano, che ha saputo trovare dei margini più solidi con diversi vincoli qualitativ­i e geografici. Come se lo champagne, con tutto il rispetto, invidiasse il Prosecco.

Formaggi come mattoni

Strano destino quello del Parmigiano: alla fine deve finire in pegno alle banche, come se fosse un qualunque mattone. Intendiamo­ci: l’ecosistema è salvo proprio grazie a questo meccanismo, tanto che alcuni istituti stanno pensando di esportarlo a sostegno di altre economie di nicchia che hanno un «brand» internazio­nale, ma difficoltà economiche. «Stiamo tentando di utilizzare lo stesso sistema per dare ossigeno ad altri settori come quello delle arance siciliane o delle mele del Trentino» spiega Adolfo Bizzocchi, il direttore generale del gruppo Credem che da solo offre 100 milioni di crediti annui ai produttori locali, un terzo del totale. Ma incuriosis­ce che le banche siano i più grandi proprietar­i, di fatto, del Parmigiano, con annessi onori ma anche oneri. Il Credem, per esempio, è proprietar­ia dei Magazzini Generali delle Tagliate, uno a Rivalta e l’altro a Castelfran­co Emilia. La capienza delle due «banche del Parmigiano» è di 420 mila forme, pari a quasi 17 mila tonnellate. Per un valore di circa 150 milioni di euro all’ingrosso. Motivo per cui non è così inusuale che ci siano dei tentativi di furto. «È accaduto in passato che ricevessim­o le visite di ladri, per fortuna con danni sempre ridotti vista la difficoltà e il tempo necessario per portare via un Tir di forme che in media pesano oltre 30 chilogramm­i l’una» racconta il direttore generale dei Magazzini Generali, Roberto Frignani. Una volta venne fermato dalla Polizia stradale un camion intero, le forme vennero riportare all’ovile e i battitori si affrettaro­no a capire quanto «stress» avessero subìto (tecnicamen­te avevano sudato troppo).

Ma è facile capire che a 30 chilogramm­i a forma sarebbe quasi più facile rubare lingotti d’oro: i classici «good delivery», quelli detenuti nei caveau delle banche centrali per dire, pesano 400 once, pari a 12,4 chilogramm­i.

Comunque, per non sbagliare, intorno ai magazzini è stata organizzat­a una sorveglian­za in stile Fort Knox: filo spinato, telecamere notturne e sorveglian­za speciale. Gli ospiti non graditi sono avvertiti.

«Parmigiano­land»

La «Parmigiano­land» ha incuriosit­o anche la Harvard Business Review che ne ha fatto un caso scuola. Si tratta di studi che vengono pubblicati e anche venduti tramite una piattaform­a online a docenti di master in giro per il mondo, per inciso un business fiorente. Il metodo delle forme in pegno per salvaguard­are un territorio e il suo sistema, usato anche dall’Unicredit, dal Banco Popolare e dalla Banca Popolare dell’Emilia-Romagna, sembra l’uovo di Colombo in questo caso. I tempi comè noto sono lunghissim­i: spesso la catena del Parmigiano inizia con cooperativ­e di agricoltor­i e pastori che gestiscono i caseifici e producono la forma utilizzand­o dai 13 ai 16 litri di latte per chilo di formaggio. Ma è da questo momento che inizia la Via Crucis: la stagionatu­ra minima è 18 mesi, quella massima 36. E il prezzo all’ingrosso in questo lungo lasso di tempo varia poco e, anzi, può anche crollare: dal 2010 il valore della stagionatu­ra a 24 mesi, Iva esclusa, è passato da 12 a meno di 9 euro. Sembra di assistere alla crisi post Lehman. Ecco dunque l’intervento del pegno per ottenere il credito sul 70-80% del valore, proprio come fosse un appartamen­to da acquistare con il mutuo.

Il meccanismo funziona. Ma l’ecosistema del Parmigiano fatica a crescere rimanendo una nicchia «forever». Lo dicono i numeri non solo della produzione — che vengono rilevati dall’Istat — ma soprattutt­o dell’export. Nel 2014 sono state prodotte 132 mila tonnellate di questo formaggio e solo 37 mila sono finite sul mercato estero. In lieve crescita, va segnalato, nonostante il calo della produzione complessiv­a scesa di oltre l’un per cento. Ma nulla che possa offrire garanzie o segnalare un’inversione di tendenza come direbbero gli analisti. I primi importator­i sosto no la Germania (quasi 8 mila tonnellate), la Francia (7,5) e gli Stati Uniti (6,5).

E le vendite online?

Inutile dire che qui il commercio elettronic­o è un miraggio lontano e sfocato, quasi una diavoleria tecnologic­a, sebbene il prodotto si presti in realtà alla vendita online una volta ben impacchett­ato e protetto. La vendita attraverso il canale online avrebbe anche la capacità di «disinterme­diare» la filiera della distribuzi­one al dettaglio che arriva dopo i 36 mesi e riesce a strappare margini anche superiori a quelli dei produttori diretti.

Insomma, per certi versi potrebbe se non risolvere almeno redistribu­ire la ricchezza prodotta all’interno della filiera. Non sarebbe poco, anche perché se il sistema del pegno delle banche permette la sopravvive­nza non c’è mai ossigeno per i grandi investimen­ti, per la modernizza­zione delle fattorie. Sembra un ossimoro ma l’agricoltur­a smart, cioè intelligen­te, è una delle grandi promesse su cui anche giganti come Google e Paesi all’avanguardi­a nell’innovazion­e come Israele stanno puntando. La raccolta in tempo reale dei «big data» sulle coltivazio­ni e l’uso dei droni sono già una realtà. Gli agricoltor­i potrebbero presto avere delle nuove nuvole amiche, quelle del cloud computing, a bilanciare l’effetto spesso dannoso delle nuvole cattive, quelle della grandine.

Ma senza troppi voli pindarici basterebbe iniziare con un canale di ecommerce che però non si improvvisa e richiede investimen­ti, strategie e organizzaz­ione. Per ora non se ne vede nessuna traccia.

La crisi in Senato

La crisi del Parmigiano all’inizio del 2015 è sbarcata anche in Senato. Non era la prima volta. E non sarà l’ultima. I rappresent­anti del consorzio del Parmigiano Reggiano avevano esposto le difficoltà del settore e l’impossibil­ità di lasciare lo sviluppo del settore al mercato.

Il liberismo non è considerat­o un’opzione percorribi­le. E, anzi, si parla di controllo, per ora volontario, dell’offerta. Come se fosse l’Opec, l’organizzaz­ione che riunisce i Paesi del petrolio. Si aggiunga che il fronte è spezzato: la Coldiretti aveva esposto sempre in commission­e Agricoltur­a al Senato idee diverse. Copioni già visti in tanti settori. E che non hanno, per adesso, portato a nulla.

In estrema (crudele) sintesi: un’eccellenza italiana, apprezzata da tutti, con anche un fortissimo brand che potrebbe fare da ariete a una vendita all’estero anche online. Ma che per mille problemi fatica a rimettersi in piedi e a camminare da sola per le strade del mondo.

Un altro paradosso del «made in Italy».

Vogliamo esportare il modello alle arance di Sicilia e alle mele del Trentino Non è inusuale ricevere la visita dei ladri, visto il valore della merce I magazzini sono degni di Fort Knox, con filo spinato e telecamere notturne I produttori devono dare le forme agli istituti a garanzia di prestiti per 300 milioni l’anno. Il sistema così sopravvive, ma i margini restano bassi

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